M.V.M.

Creato il
21/4/98.


Ancora su Il premio:

1) Recensione di Edmondo Dietrich

2) Recensione di Giuseppe Bellini

3) Recensione di Vittoria Martinetto


PEPE CARVALHO AI PREMI LETTERARI

MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN

SETTE, 27 giugno 1996.


Strega, Viareggio, Campiello. Sono i nomi più famosi della lunga estate calda del libro. Si comincia con lo Strega, il 4 luglio. Uno Strega che festeggia mezzo secolo di vita e, naturalmente, di polemiche. Perché il mondo dei premi letterari è anche un mondo di intrighi e sospetti, gelosie e invidie feroci. Un paesaggio ideale per ambientare un giallo. È quello che ha fatto lo scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán, 57 anni, che quel mondo conosce bene tanto da averne ricavato, in patria e all'estero, allori e assegni: ebbene, il suo ultimo libro uscito in Spagna s'intitola Il premio e vede il famoso detective Pepe Carvalho alle prese con un caso ambientato proprio nella giungla dei trofei letterari. Giungla è dir poco: solo in Italia quest'anno se ne contano 686 (nel 1991 erano 536). Cosa c'è dietro questa mania? Sette ha chiesto a Pepe/Montalbán un supplemento di indagine.


Raúl per EL PAÍS a proposito de El premio.

Diciamo la verità: si comincia a scrivere perché vogliamo essere più alti, ricchi, belli e biondi e col tempo scopriamo che la letteratura porta ad altre soddisfazioni anche se, grazie all'arte di scrivere, qualcuno è anche riuscito a diventare alto, biondo e bello. Ricco, nel vero senso della parola, ne dubito. Però, all'inizio della sua vocazione, lo scrittore ha conosciuto senza dubbio quell'istante magico che lo ha spinto inevitabilmente a scrivere qualche cosa da insegnare agli altri. Di solito, quest'istante magico è il riconoscimento di un premio letterario, pieno di immagini audiovisive al servizio dell'eroe o dell'eroina di una notte, obbligati a sintetizzare cento volte il tema della loro opera e ad anticiparne il messaggio. Si scrive sull'impossibilità di avere il mondo in mano e sulla speranza di costruire delle realtà alternative con l'aiuto delle parole, ma anche perché scrivere significa raggiungere la condizione simbolica dello scrittore, che è un grande sciamano, detentore della magia del linguaggio che meraviglia e continuerà a meravigliare la gente. A volte m'è capitato di paragonare l'impulso di scrivere a quello dell'esibizionista completamente nudo sotto il suo impermeabile. L'esibizionista ha il coraggio di aprire il suo impermeabile in pubblico, noi, scrittori, cerchiamo di coprire le nudità con il fogliame appassito delle parole.

Ricordo la sensazione che provai quando una Françoise Sagan adolescente, quasi come lo ero anch'io nel 1954, pubblicò Buongiorno, Tristezza vincendo il Goncourt e mi dissi: Se questa ragazza ha vinto il Goncourt, perché non posso vincerlo anch'io? Evidentemente, non conoscevo il regolamento del Goncourt come non conosco quello dello Strega, un altro di quei premi emblematici situato al termine della passerella che conduce alla gloria di vedersi il microfono appoggiato sulle labbra: «Di che cosa parla il suo romanzo?», mentre le donne svengono ai tuoi piedi e l'editore ti offre un assegno in bianco da qui all'eternità.

Come succede in tutti i paesi con un basso livello di lettura, la Spagna è una terra di premi letterari per testi inediti, a differenza dei paesi con una più ampia tradizione di lettura che, di solito, premiano le opere già pubblicate. In Spagna, dopo la Guerra Civile, si assegnavano sempre più spesso premi letterari, implicando così il diritto alla pubblicazione dell'opera, testimonianza evidente della condizione di sottosviluppo dell'industria e del mercato editoriale. Col tempo, l'una e l'altro si sono sviluppati, ma si continua tutt'ora con l'abitudine di premiare prima di pubblicare, come se si trattasse di un valore aggiunto e orientativo, a priori, quasi pretestuoso.

QUANTA GRANA TI DANNO? All'età di diciassette anni, mi presentai a un premio per il miglior libro di racconti; la fortuna volle che figurassi tra gli autori selezionati ma la sua gemella siamese, la sfortuna, fece sì che allo stesso concorso partecipasse un autore un po' più vecchio che in seguito avrebbe molto fatto parlare di sé. Credo che continui a chiamarsi Mario Vargas Llosa. Lo scrittore peruviano vinse quel premio con la sua opera prima: Los Jefes (I Capi) e io non osai mai utilizzare nessuno dei miei racconti perdenti. Dieci anni dopo, vinsi un premio di poesia e nel 1979 il premio Planeta per il romanzo; in Spagna, è il riconoscimento più importante dal punto di vista economico e, per questo motivo, viene considerato dai lettori più innocenti come il migliore, così come i tifosi di calcio considerano che il miglior giocatore sia quello che ha ricevuto l'ingaggio più alto.

Se qualche volta avevo pensato che grazie al Planeta sarei riuscito a diventare alto, ricco, biondo e bello, mi sbagliavo relativamente. Riuscii a diventare un po' più alto, un po' più biondo e un po' più bello, ma al prezzo di perdere temporaneamente la mia aura di scrittore sprezzante nei confronti della società letteraria nonché sostenitore della Letteratura intesa come servizio al linguaggio e alla lotta di classe internazionale.

La notte stessa in cui stavo per vincere il Planeta, nel momento in cui entravo nel salone, preparato alla gloria o all'insuccesso, un'insopportabile critica letteraria di tendenza steineriana, costituitasi come custode della verginità della Letteratura, mi assalì e con tono di voce da malfattore, mi apostrofò duramente: «Quanta grana ti ha dato l'editore per presentarti a questa buffonata?». Non l'ho dimenticato e nel mio ultimo romanzo, El premio ho cercato di evocare le aggressioni che solitamente noi scrittori subiamo da parte degli altri e persino da noi stessi. Non mi sono mai più presentato a nessun altro premio e, in cambio, negli ultimi venti anni, ho ricevuto quasi tutti quelli che ragionevolmente si possono ricevere, sommando in questo modo concreti riconoscimenti narcisisti, ma anche delusioni nei confronti di me stesso, essendo convinto, fino a poco tempo fa, di essere un marxista, fedele seguace di quel principio di Groucho Marx: «Non avrei mai fatto parte di un club che mi avesse accettato come socio».

NUDI AL CONCORSO DI BELLEZZA. Tra tutte le varianti dei concorsi a premi, mi rendono particolarmente ansioso quelli che selezionano due o tre finalisti e li obbligano a presentarsi sul luogo della consegna del premio per aspettare il risultato. Questa manifestazione è probabilmente quella che di più somiglia ai concorsi di bellezza, col vantaggio che per un premio letterario, noi scrittori non siamo costretti a sfilare in costume da bagno, né a farci prendere le misure del corpo, e nemmeno dobbiamo dondolarci davanti alla giuria. Però, in un modo o nell'altro, sfiliamo nudi, perché mentre aspettiamo la decisione della giuria, dobbiamo continuare a stare sulla terra alla maniera heideggeriana: pensando che l'inferno sono gli altri, gli altri scrittori alla maniera sartriana e preparando qualche intimo alibi per affrontare un fiasco e frasi brillanti e generose nel caso di una vittoria.

Chi volesse entrare a far parte della società letteraria, costituita da scrittori, editori, critici e lettori, dovrà temperare il suo senso etico dinanzi alla liturgia dei premi letterari. Nel caso della Spagna, dove quasi sempre i premi vengono attribuiti prima della pubblicazione, è logico sospettare che per gli editori siano l'occasione per lanciare questo o quel libro. Quando vengono premiate opere già pubblicate, come succede in Italia o in Francia, viene il dubbio che l'accordo faccia parte del rapporto di forze fra le case editrici, piuttosto che di un patto rotariano, un anno a te, un anno a me e così via...

Nemmeno i premi istituzionali concessi dallo Stato o dall'Unione Europea sono al di fuori di ogni sospetto, perché sussiste sempre la possibilità che il premio non sia andato a favore di qualcuno ma contro qualcuno, cioè che lo abbiano dato a te per evitare di darlo a un altro. Il problema dei premi letterari è che, come succede per il fuori gioco nelle partite di calcio, non si è ancora trovato un sistema di garanzia etica che li tuteli dalla soggettività degli arbitri, individuali o collettivi. Noi scrittori amiamo i premi che non richiedono una competizione finale pubblica tra simili, perché, nonostante si affermi il contrario, essere battuto in pubblico e a questi livelli di carriera, lascia delle cicatrici e può provocare qualche futuro crimine... letterario, ovviamente. In alcuni Paesi, la crudeltà dei lettori si manifesta nel riconoscere premi letterari che riuniscono il concetto di opera completa e di vita conclusa, perché vengono assegnati quando l'autore sta per lasciare questo mondo e questa gratificazione suona come premonizione del funerale. Altre volte, questo genere di trofei ha l'effetto di una doppia dose di ginseng e rianima lo scrittore moribondo (per ottenere questo effetto però bisogna essere molto, ma molto narcisisti). Ecco perché noi scrittori desideriamo i premi e al tempo stesso li temiamo. Non sappiamo se dire «Grazie tante»,oppure «Aiuto, sto andando al mio funerale».

(Traduzione di Martínez López)


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