M.V.M.

Creato il
18/5/99.


Ancora su Lo strangolatore:

1) Intervista con lo scrittore

2) Postfazione di Hado Lyria


Contro la perdita della memoria storica

ALESSANDRA RICCIO*

Presentazione presso l'Instituto Cervantes di Napoli, 18 / 1 / 1996


La narrativa dice la verità in un'epoca in cui le persone cui è demandato dirla inventano storie. I politici, i media, coloro che creano le opinioni inventano storie. Allora è dovere dello scrittore di finzioni cominciare a dire la verità. (Salman Rushdie)



Deve essere veramente duro dover sopportare per ben due volte nella vita il furto della memoria storica, la rimozione, l'occultamento e la tergiversazione di fatti che hanno ferito a morte società, famiglie, individui. Eppure questo è accaduto a Manuel Vázquez Montalbán nato a Barcellona nel 1939 e cioé in quell'anno che ha fatto da cerniera fra la fine di un'utopia libertaria e rivoluzionaria in Occidente e l'inizio della seconda guerra mondiale. È nato a Barcellona, dicevamo, in una famiglia non catalana con un padre comunista (che per questo dovette scontare cinque anni di carcere, ma anche al nostro toccarono 18 mesi di prigione) e una madre simpatizzante dell'anarcosindacalismo. Proprio come i genitori dello strangolatore: "Mio padre era un pessimista malthusiano che mi generò in un momento di debolezza erotica, storica e scientifica, eccezione dell'anima che conferma la regola del suo pessimismo, dovuto all'aver perso una delle peggiori guerre di secessione e all'essersi scandalizzato fino a esiliarsi in se stesso per l'assassinio legale di Sacco e Vanzetti". E la madre sarta a domicilio e coccolona, perdutamente innamorata del sorriso del figlio non ancora diventato strangolatore. Da ragazzo, nel suo quartiere di vinti, Montalbán scopre la legge del silenzio: "Parlavamo della guerra civile solo in privato. Restava appena quasi uno scheletro di memoria" ha confidato a François Maspero in una recente intervista e proprio per coprire il bisogno di rivestire di carne quello scheletro, i comunisti cresciuti all'ombra del franchismo hanno fatto della rivendicazione della memoria uno strumento di lotta, una strategia volta a trattenere nella tela della memoria proibita tutte le falsificazioni di vita e di storia perpetrate dal franchismo, e questo Montalbán non lo dimentica e non ce lo fa dimenticare ("El País", 26.10.88).
    Fare letteratura, per il nostro autore, significa riordinare il disordine del mondo; comincia a scrivere romanzi in un'epoca in cui ne era stata decretata la morte e li scrive a partire da uno scetticismo radicale, pensando di andare controcorrente scegliendo il romanzo poliziesco come un referente convenzionale di genere in cui poter trovare il tempo della cronaca; non bisogna mai dimenticare, infatti, che il nostro autore è un grande giornalista e che, a chi gli chiede di definirsi, risponde seccamente: "Signore e signori, io sono un cronista". Nasce così, nel 1972, il Pepe Carvalho di Yo maté a Kennedy, ambientato lontano dalla amata/odiata Barcellona e lontano dallo spirito appassionato del precedente Manifesto subnormale (1970) in cui l'autore aveva dichiarato: "Scrivo come fossi un idiota, unico atteggiamento che possa consentirsi un intellettuale sottoposto a un'organizzazione della cultura precariamente neocapitalista. La cultura e la lucidità conducono alla subnormalità". Ma il personaggio del detective prende corpo e acquista statura: lo troveremo ancora in Tatuaggio (1974), La solitudine del manger (1977), I mari del Sud (1979), Assassinio al Comitato Centrale (1981), Gli uccelli di Bangkok (1983), La rosa di Alessandria (1984), Il centravanti è stato assassinato verso sera (1988). Pepe Carvalho, si sa, è sempre dalla parte dei perdenti; egli brucia i libri nel suo caminetto (è andata così in fumo, sotto i nostri occhi di lettori, un'intera biblioteca marxista) ma ha piena coscienza del fatto che proprio i problemi segnalati dal marxismo sono all'origine del gesto omicida di un colpevole che egli riuscirà a smascherare nonostante la perfetta geometria della trama e al quale non negherà mai la sua compassione. A questo punto vorrei poter dire, forse vorrebbe dirlo anche l'autore: Pepe Carvalho, requiescat in pacem, ma temo, ahimé, che la legge del successo popolare ci farà incontrare ancora questo affascinante personaggio.
    Certo è che alla metà degli anni Ottanta Montalbán ci stupisce con un romanzo (di quelli che Rosa Rossi definisce storici), Il pianista (1985), in cui ritorna forte il desiderio di restituire carne allo scheletro della memoria anche perché la tanto celebrata "transizione" spagnola esige una riflessione morale sui mutamenti di una società che ha sostituito una normalità con un'altra senza affrontare un vero cambiamento (Roma, 3.6.88, Convegno sul romanzo iberoamerieano). Su questo filone di ricerca verranno poi il bellissimo Galíndez (1990), l'atroce Io Franco {1992) e Pasionaria e i sette nani che è già in traduzione da Frassinelli.

    Ma torniamo a Lo strangolatore che significa anche tornare al Manifesto subnormale. In quel libro, Montalbán ci aveva avvertiti: qualsiasi patto con la normalità comporta una complicità con i peggiori assassini. E infatti il nostro strangolatore, DiSalvo o Cerrato, non importa per ora, uccide i suoi genitori nel maggio del sessantotto, negli anni settanta, in una specie di delirio logorroico, sostiene di aver eliminato altre 34 persone, vicini di casa, maestre e professori, psicoanalisti, ecc. Messo di fronte al pericolo imminente e concreto di essere sottoposto alla lobotomizzazione, il farneticante strangolatore, conscio del fatto che si vuole "castrare la sua dissidenza essenziale", decide di patteggiare "servendomi di quel cervello possibilista e socialdemocratico che tutti abbiamo dentro di noi come strumento di soccorso fra il Tutto e il Nulla" (p. 125). Finirà poi col rinchiudersi, negli anni Ottanta, in una fase autistica, in un "silenzio non operativo" in cui sembrerebbe aver trovato "una patria morale innocente, possibile soltanto nel chiuso di una cella" (p. 218) da dove coltiva una muta e disperata nostalgia per Alma, la sua anima, ma un'anima, anch'essa autista e masturbatoria, perduta ma forse non inesorabilmente, fra le rovine di una città —Boston/Barcellona— distrutta quando i barbari hanno deciso di costruire paesaggi artificiali. In quella città il nostro protagonista tornerebbe "come un colono prospero rimpatriato dalle Indie e arricchito dal naufragio nel Mare della Tranquillità, "per sempre al riparo dall'agguato della SOVVERSIONE".
    Vázquez Montalbán ci ha avvertito: Letteratura e impegno? va bene, ma solo se l'autore è capace di fare letteratura della sua ideologia. Lo strangolatore è un romanzo duro e al passo con i nostri tempi, pieno del sapere stitico e contraddittorio di questi ultimi decenni, correttamente nostalgico, giustamente disperato, consapevolmente catastrofico, un romanzo impegnato, ma che va letto anche con la lente dell'ironia, una medicina indispensabile per prevenire o per curarsi dal disfattismo, un umore che lubrifica le asperità del compromiso pur restituendocelo tutto intero —l'impegno, dico— nel suo valore, insostituibile, di voce della coscienza.
    Permettetemi ora un consiglio: provate a leggere Lo strangolatore, questo romanzo di sesso abominevole e di violenza gratuita, infarcito di citazioni culturali, politiche e cliniche comunque mai casuali, glossandolo con l'ultimo libro di Montalbán, Pamphlet dal pianeta delle scimmie, un intervento politico sulla "stanchezza democratica" del Nord opulento che chiosa perfettamente la grande metafora del serial killer che ognuno di noi corre il rischio di essere giacché ci stanno mutilando della memoria critica e del diritto di "tentare di ricostruire un'idea razionalistica di finalità".
    Lo strangolatore, con la sua perversa ironia, ci ha messo sull'avviso: "Non ho mai voluto togliere importanza al libero arbitrio, ma le cicatrici che osservo sulla fronte degli esseri umani, cicatrici che, a quanto pare, vedo soltanto io, dimostrano quanto siamo stati fortunati a vivere tempi in cui le anormalità asociali del comportamento possono venire corrette dalla scienza, sia mediante la persuasione in tutte le sue forme, sia mediante il bisturi, e si avvicina una sintesi perfetta tra la persuasione mediatica o esplicitamente repressiva e il bisturi: il raggio laser è già stato sperimentato in alcune operazioni chirurgiche di visceri e in concerti di musica pop.(p. 154)"
    Con parole simili, il lucido cronista dei nostri tempi, Manel Vázquez Montalbán ci suggerisce: "Se guardiamo attentamente la fronte del Grande Consumatore, possiamo scoprire una cicatrice, segno della lobotomia praticata per estirpare la memoria dei tempi quando persino gli ubriaconi dei pub inglesi erano giovani, pieni di fiducia e voglia di vincere... come dice la malinconica canzone di Mary Hopkins: Oh, happy times che propongo come colonna sonora da qui fino al termine di questo mio pamphlet."(p. 75). Essere privati della memoria critica due volte nell'arco di una sola vita è veramente troppo e Montalbán ha tutto il diritto di lanciare un appello di cui volentieri mi faccio eco: "Svergognati dalle scimmie centrali, centriste e centrate, con i sacerdoti e i profeti della ragione in crisi, esorto a formare una coalizione di non pentiti di aver creduto, per quanto ci è stato possibile, nel continuo sviluppo di qualità del convenzionale spirito democratico"(p. 11).


*Alessandra Riccio è professoressa universitaria a Napoli. È specializzata in letteratura latinoamericana.


Ancora su Lo strangolatore:

1) Intervista con lo scrittore

2) Postfazione di Hado Lyria