M.V.M.

Creato il
15/7/2000.


Ancora sul Chiapas:

1) Intervista con il vicecomandante Marcos.
2) Articolo sul Chiapas del gennaio 98.


Vi narro la Selva di Marcos

GIANNI PROIETTIS

Il Manifesto, 8 / 4 / 2000.


Il fatto che i romanzi di Manuel Vázquez Montalbán siano molto popolari fra gli zapatisti è dovuto a un mero accidente: un esemplare delle avventure di Pepe Carvalho ha fatto il giro della Selva Lacandona nello zaino del subcomandante Marcos, trovando parecchi lettori entusiasti sul suo itinerario. Vázquez Montalbán non immaginava che avrebbe portato chorizo spagnolo nel cuore della selva per placare la fame di delikatessen che aveva acceso, senza proporselo, all'interno di un accerchiamento militare. Né che avrebbe scritto un libro in cui raccontava quel viaggio, fatto anche - e soprattutto - per cercare di comprendere uno dei fenomeni politici più significativi del nostro agonizzante fin de siècle. Alla fine, dopo un breve scambio epistolare, lo scrittore catalano che ha pagato con il carcere franchista la sfrontatezza di essere comunista, è andato a trovare l'autore di Durito, lo scarafaggio-corsaro, nella selva militarizzata e sorvolata da elicotteri. Da quell'esperienza è nato "Marcos: el señor de los espejos" (ed. Aguilar), un tentativo onesto di capire la ribellione zapatista, allargandola alla condizione indigena, metafora della condizione umana. Giorni fa Vázquez Montalbán ha presentato il libro, fresco di stampa, in varie città messicane, fra cui San Cristóbal.

—Come si vede il fenomeno dello zapatismo in Europa in questo momento?
—I mezzi di comunicazione convenzionali lo trattano come fatto obsoleto, resistenza residuale cui neanche la sinistra che si dice socialista ha prestato attenzione. Ci sono state addirittura dichiarazioni di alcuni socialisti, come il segretario del Psoe Almunia quando è venuto in Messico, per sminuire il fenomeno. Il problema è che il Partido revolucionario institucional mantiene buone relazioni con l'Internazionale socialista e questo ha fatto sì che molti partiti socialisti abbiano voltato le spalle al movimento zapatista. Quando parlai con Massimo D'Alema, due anni fa alla festa dell'Unità di Bologna, lui espresse una certa simpatia per il movimento zapatista. Anche il subcomandante Marcos ritiene che fra le sinistre istituzionali quella che ha dimostrato più comprensione è la sinistra italiana, gli ex comunisti. Comunque, sebbene non ci sia sufficiente sostegno dalla sinistra istituzionale, sono venuti molti volontari europei, specialmente italiani e spagnoli. Quando stavo nell'accampamento a La Realidad, c'erano 14 campamentistas italiani e 4 spagnoli.

—Cosa si proponeva scrivendo "El señor de los espejos"?
—Mi interessava una lettura dello zapatismo come esempio di altre realtà culturali, l'idea dell'indio come metafora. Metafora del perdente, un perdente storico nell'era della globalizzazione. Partendo dall'idea che stiamo entrando in un periodo dialettico fra globalizzatori e globalizzati, quello del Chiapas è stato un primo segnale, seguito da Seattle, dall'Ecuador, da Davos. Le proteste alle riunioni di libero commercio sono l'inizio di una coscienza universale sulla globalizzazione. Non tanto sulla realtà economica obiettiva: quanto sulla strategia di dominazione e dipendenza che c'è dietro. Mi interessava molto parlarne con il subcomandante Marcos, che mi ha aiutato a trasmettere l'idea di una rivendicazione indigena concreta, e insieme una metafora, una proposta di riflessione globale.

—Qual'è la percezione messicana dello zapatismo?
—C'è una divisione ideologica fra modernizzatori, che detestano lo zapatismo perché lo leggono come il ritorno alla selva, e chi lo mette in relazione con l'idea di un movimento di emancipazione indigena continua. Malgrado fuori dell'America latina si pensi che la ribellione indigena sia terminata da tempo, malgrado il condizionamento di noi europei all'immagine dell'indoamericano da film western, in realtà ci sono stati tentativi costanti di emancipazione. Questa è un'altra delle letture possibili, per poi affrontare la falsificazione della cultura politica fatta dal Partido revolucionario institucional. E' come se lo zapatismo avesse rotto lo specchio truccato del Pri, la sua apparizione ha accelerato la crisi interna di questo partito, da 70 anni al potere.

—Per un autore di fiction, qual'è il migliore dei futuri possibili per lo zapatismo?
—Non so, questo è futurologia. Credo che ci sia già un apporto dello zapatismo, la rigenerazione del linguaggio politico e il rinnovamento della proposta del soggetto storico tipico, giacché critica la società civile in una chiave molto simile a quella gramsciana, ma allo stesso tempo intrisa del protagonismo del consumatore di democrazia. Nel mercato della democrazia, in un mercato della verità, il consumatore di democrazia ha il diritto di protestare, di reclamare una democrazia non adulterata: è il ruolo della società civile.

—Come definirebbe la fase che sta vivendo l'Europa?
—Dentro lo schema della globalizzazione, l'Europa cerca di costituire un mercato comune economico, e in parte ci è riuscita, ma senza sapere perché lo si è fatto. Per le sue radici politiche e culturali, perché è stata culla di quasi tutte le idee di emancipazione e per il ruolo che hanno vi svolto i movimenti sociali, i partiti di sinistra e il welfare state, si sarebbe potuto pretendere dall'Europa un'alternativa al modello di sviluppo capitalista. Invece, la grande sorpresa - per me, il grande fallimento - è che l'Europa non è ancora riuscita a creare un immaginario comune né un modello di comunità culturale, politica e sociale. Perché, poi, si costruisce l'Europa? Per creare un nuovo blocco capitalista, che si disputerà e dividerà con gli altri il mercato mondiale e il sistema produttivo? oppure per seguire la traccia della sinistra europea, che potrebbe dar luogo a una lettura differente del capitalismo e alla proposta di una correzione della globalizzazione, cioè un'Europa di sinistra, l'eurosinistra di Berlinguer? E' il gran dilemma. Speriamo che si risolva con l'esperienza d'oggi, in cui una buona parte dei governi europei è di sinistra: in Germania e in Inghilterra governa la socialdemocrazia, in Italia quello strano fenomeno capitanato da D'Alema... Però, questa socialdemocrazia non osa farsi protagonista di un nuovo progetto europeo. E' troppo condizionata dall'egemonia Usa, dall'incapacità di ribattere alla strategia delle multinazionali e del capitale finanziario, dalla paura che le si rinfacci il passato di sinistra. Questi governi hanno sopratutto bisogno di dimostrare d'essere capaci di gestire il potere e di entrare nell'ordine internazionale. Hanno paura di segnare una differenza.

—Il secolo si è chiuso con l'orazione funebre a più voci del comunismo...
—Io credo che il comunismo resista dal Medioevo. Non se l'è inventato Stalin. Il comunismo è l'obiettivo di razionalizzare la distribuzione, che a un certo punto sarà imposto dalla necessità della sopravvivenza collettiva. Bisogna citare di nuovo Lewis Carroll - e non Marx - quando in "Alice nel paese delle meraviglie" dice che le parole hanno un padrone, e quando il padrone delle parole ne fa un cattivo uso, esse perdono senso e valore d'uso, non si possono più usare. E' quel che è successo con la parola comunismo da parte di alcuni sistemi comunisti: l'hanno resa inutilizzabile. Detto questo, il comunismo come desiderio di un modello di organizzazione della società, di un modello più equo di distribuzione, un desideratum in assoluto, continua ad essere valido. Anche se, logicamente, non potrà mai compiersi. In alcuni casi è dimostrato che, da un punto di vista tecnico, può organizzare società di sopravvivenza. Quel che non ha dimostrato è la capacità di competere con il capitalismo in una guerra, ha dovuto mantenere una continua lotta di crescita economica, tecnologica, armamentista e non è riuscito a farlo senza perdita di consenso sociale.

—Tornando alle manifestazioni di Seattle e Davos, alla rivolta india di Quito e allo stesso zapatismo, sono solo sintomi di malessere, eruzioni cutanee, o potrebbero essere i primi elementi di una reale opposizione planetaria?
—Il difficile è organizzare un soggetto critico così diverso. Il movimento operaio aveva un soggetto - il proletariato industriale - e un luogo in cui organizzarsi - le fabbriche. Ora, invece, è complicatissimo organizzare la diversità dei soggetti critici: questi ultimi fatti li interpreto solo come sintomi iniziali, che potranno fare importanti passi avanti se si mobiliteranno intere società. Finché non si produrrà un movimento simile a quello dei non allineati negli anni '50 - i perdenti nell'ordine internazionale dell'epoca che decisero di riunirsi per far fronte al sistema - finché gli stati-nazione non si sentiranno perdenti nel gioco della globalizzazione, sarà molto difficile creare un autentico fronte globale antagonista. Che si muoverà, necessariamente, su piattaforme molto diverse. Il movimento indigeno, per esempio, è molto interessante, non solo in America latina, ma anche nel Nordeuropa e in Africa, e può dar luogo a una piattaforma internazionalista. Dall'ecologismo, sebbene ne esistano letture molto differenti, potrebbe uscire un altro soggetto convergente, l'organizzazione di un soggetto globale. Quanto alla cultura del lavoro, è molto difficile da organizzare, perché si è modificata, dinamizzata e ha assunto forme diverse in ogni luogo.

—E se internet fosse il luogo di organizzazione paradossalmente offerto da Bill Gates, il paletto nel cuore del capitalismo avanzato?
—Sì, però può servire anche a organizzare fascisti, a unire gruppi reazionari... Di per sé, internet è finora il meccanismo più democratico mai creato, perché tutti i mezzi di comunicazione precedenti sono sempre nati a lato del sistema repressivo. Quando nasce la stampa, per esempio, il potere crea immediatamente delle regole per cui la possano utilizzare solo determinate persone. L'imprimatur ai primi giornali lo poteva dare solo il re, e lo dava sempre al suo medico, all'amante di sua moglie o ai suoi fidi. Quando appaiono le onde hertziane, la legislazione repressiva nasce anche prima della radio. Idem con la televisione. Invece internet è nata senza un controlli legislativi, repressivi. L'unico controllo è tecnico - il giocattolo, l'utensile - e economico - il poter trasmettere via telefono.

—Ricorda molto l'idea di Hans Magnus Enzesberger della comunicazione orizzontale...
—E' vero, ricorda quello schema e in più moltiplica la teoria del polifochismo. Ognuno può essere un foco di emissione di informazione. Finora però si sta proponendo internet come un giocattolo e come un feticcio tecnologico, come fosse già in sé il progresso, indipendentemente dall'uso della rete. Un atteggiamento da combattere, per cominciare a utilizzarla come ha fatto il movimento zapatista, che è stato uno dei primi esempi di uso di internet per organizzare resistenza. Per organizzare una rete critica a livello globale.