Creato il 18/9/98.
Ancora sull'incontro di Bologna:
La polemica di Francesco Merlo
|
|
D'Alema tra Vázquez Montalbán e Camilleri
SEBASTIANO MESSINA
La Repubblica, 10 / 10 / 1998.
BOLOGNA - Era un pomeriggio un "tanticchia strèuso", direbbe il commissario Montalbano, un pomeriggio piuttosto strambo per quella liturgia estiva che è la festa dell'Unità. Sul palco non si teneva né un dibattito né un'intervista, ma un "dialogo". Un dialogo tra due scrittori e un loro "appassionato lettore", forse il più celebre dei loro lettori: il segretario dei democratici di sinistra, Massimo D'Alema. Così, per la prima volta, i compagni bolognesi hanno visto il loro leader, il grande capo delle Botteghe Oscure, vestire umilmente i panni del moderatore, dell'animatore culturale, che dice "buonasera e grazie" per rompere il ghiaccio, e li sgrida con bonaria burbanza ("Buoni!") quando rumoreggiano in sala come scolaretti discoli. Per la prima volta hanno visto il tagliente e orgoglioso lìder Massimo che si siede un gradino più in basso dei suoi interlocutori, Manuel Vàzquez Montalbàn e Andrea Camilleri. Per la prima volta hanno sentito il segretario spiegare a due scrittori la letteratura vista da un politico e due scrittori spiegargli la politica vista da un commissario siciliano e da un investigatore privato catalano, attraverso un intrigo mediterraneo di delitti e di proverbi, di misteri e di illusioni. D'Alema li ascoltava con la sincera deferenza del lettore verso lo scrittore, come mai farebbe di fronte a nessun politico, a nessun ministro, a nessun capo di governo, dimenticando per due ore di essere il signor segretario, e come ha scritto Vàzquez Montalbàn "il signor segretario persino quando mangia fette di finocchiona lo fa come se stesse pensando all'origine e alla finalità della finocchiona nel mondo". "Sono emozionato" ha confessato subito lui stesso, spiegando che quello non sarebbe stato "un insolito mercoledì letterario a una festa politica", ma il tentativo della politica di riappropriarsi delle sue "radici nella cultura umanistica", perchè, compagni, "bisogna evitare che la politica diventi pura tecnica di gestione del potere". Ai vecchi e solidi compagni emiliani, quelli che spendono le loro ferie per andare a cuocere tremila piadine e mille salsicce a beneficio delle casse del partito, forse è sembrato un po' strano, un tanticchia strèuso, che il custode della linea chiedesse lumi e speranze a due scrittori di gialli, ma se l'hanno pensato non l'hanno lasciato capire. La sala era strapiena, attenta e rispettosa. Ha applaudito con divertimento ("Mo vedi, capisce pure di letteratura!") il segretario che si trasformava rapidamente prima in moderatore e poi in critico letterario, ricamando con sapiente abilità sulle molte affinità nascoste tra il commissario di Camilleri e il detective di Vàzquez Montalbàn, "entrambi misogini ma amanti delle donne, entrambi presi dallo stesso amore trasgressivo per il cibo, entrambi disincantati eppure entrambi animati da una passione civile". Poi, però, il "dialogo" è arrivato al dunque: cosa possono fare gli scrittori per la politica? Vedete, ha spiegato, "il distacco dei cittadini dalla politica ci preoccupa, non solo per ragioni ideali ma anche per ragioni professionali, diciamo". Può la letteratura aiutarci "a formare una coscienza civile"? Sì e no, gli hanno risposto i due scrittori. "Noi due - gli ha spiegato Vàzquez Montalbàn - siamo figli di un certo scetticismo sulla possibilità di usare la letteratura come strumento di conoscenza della realtà. L'incontro tra l'ideologia e il linguaggio letterario è come quello tra l'olio e l'acqua. Eppure ciascuno di noi trasmette un'ideologia, mentre scrive, una visione del mondo: diciamo che la nostra è una letteratura d'opinione, di diagnosi sociale". Camilleri è stato più diretto: "Io credo che il compito della letteratura sia quello della conoscenza, ma senza darlo a vedere, altrimenti diventiamo dei maestri di scuola o dei propagandisti". Poi il dialogo s'è spostato sul libro dello scrittore spagnolo sui Borgia, "O Cesare o nulla", storia romanzata della famiglia che arrivò fino al papato ma fallì nel suo progetto di conquista dell'Italia. "Una metafora del comunismo?" s'è informato D'Alema. "No, solo il racconto di una turbinosa transizione" lo ha rassicurato Vàzquez Montalbàn. Quindi è venuto il turno del commissario Montalbano, brillante investigatore di Vigata ma colpevole, agli occhi di D'Alema, di coltivare "il pessimismo dell'intelligenza", di guardare al cambiamento in Italia "come un cambio che non cambia". Non sarà troppo pessimista, caro Camilleri? Ma no, lo ha rassicurato lo scrittore siciliano: "I miei 73 anni mi danno quello che Alfieri chiamava l'umor nero del tramonto. La verità è che i nostri protagonisti non sono degli eroi il cui destino è segnato nel cielo, ma persone consapevoli della possibilità di una sconfitta...". A questo punto l'incantesimo è finito. Alla parola "sconfitta" D'Alema è tornato nei panni del segretario e ha ripreso il controllo della situazione: "Oddìo, noi in questi anni abbiamo molto faticato a conquistare la consapevolezza di una possibile vittoria. Mentre la sinistra del passato affrontava il fuoco con la certezza della vittoria, oggi la sinistra moderna ha il senso della possibile sconfitta. Anzi qualcuno è dominato dallo sconfittismo". Così, per l'applauso finale, ognuno era tornato nei suoi panni, il segretario a dare la linea e i due scrittori a firmare libri ai compagni lettori.
Ancora sull'incontro di Bologna:
La polemica di Francesco Merlo
| |