M.V.M.

Creato il
3/5/98.


Una lettura attuale,due interviste anomale, e quell'adolescenza

HADO LYRIA*


Copertina
La copertina del libro.
Per il lettore abituale di Vázquez Montalbán questo suo Pianista può sembrare un'opera assai inconsueta. Ma anche a chi si trova al primo approccio con l'autore potrebbe interessare questa mia nota. Vorrei pertanto spiegare quanto questo romanzo sia legato alle radici e vicissitudini di Vázquez Montalbán, tanto da sembrare una sorta di «enunciato spirituale», una sintesi di tutta la sua poetica e quasi una chiarificazione degli altri suoi testi, nonché delle scelte morali.

Conobbi Vázquez Montalbán nel 1957. Eravamo entrambi allievi della Scuola di Giornalismo di Barcellona, allora sita nella Rambla di Santo Mónica, pure citata nella prima parte del nostro volume, in quel convento che sta per trasformarsi in Museo d' Arte Contemporanea. Passeggiavamo insieme a lungo per le strade dei quartieri bassi della città, parlando prima soltanto di poesia. Poi, con la cautela voluta dalle circostanze, si intromise la problematica politica. Il padre di Vázquez Montalbán, operaio comunista «da sempre», era finito in carcere dopo la guerra. Vi rischiò la fucilazione. Pure mio padre, in quanto repubblicano, aveva subito la stessa sorte. C'era quindi una base per comprenderci anche in questo. Io ero una ragazza dei quartieri alti. Vázquez Montalbán apparteneva, evidentemente, a un'altra classe sociale. Evidentemente per gli abiti dimessi, il palese sacrificio vissuto dai genitori per portare il figlio unico agli studi (era nel contempo iscritto alla Facoltà di Filosofia, dove più tardi si laureò). Per aiutare la famiglia, anche Manuel, Manolo, si dava da fare: la domenica andava di appartamento in appartamento per incassare le rate di un'assicurazione allora frequente tra la povera gente, e che sarebbe servita a pagare, al momento dovuto, i loro funerali. Un lavoro come un altro, a quei tempi di magri introiti. Un mattino, con fierezza e ritrosia, mi condusse in via Botella. In piazza del Padró. Mi spiegò la fontana con i suoi mascheroni. Il negozio del tabaccaio. I bar dei gitani. La vendita del baccalà. La farmacia. Non mi parlò, ancora, dei terrazzi. Mi fece notare un androne buio, pateticamente scrostato, buio, buio. E umido. Molto stretto. Dalle scale ripide si saliva a poverissimi e lindi appartamenti che non subito mi fece conoscere. Casa mia, disse. Casa sua. La casa dei genitori. La casa che già è di Teresa. Che oggi è di Teresa e di Rosell. Manolo vi era nato e cresciuto, ci visse ancora a lungo. «Ho un impegno», mi disse. «Forse solo una persona ogni centomila di questi quartieri riesce, al di là del proprio talento —e molti lo hanno— solo per pura fortuna, a iscriversi all'università. Io ho avuto questo privilegio». Non aggiunse il fatidico: «Lo vedi che mi debbo fare onore», ma è chiaro che fu questa premessa a guidare a quei tempi ogni sua scelta, che poi l'antifranchismo militante gli rese ancor più difficile —la tortura, un anno e mezzo di prigione, un dossier di sovversivo ancor oggi effettivo negli archivi democratici del Ministero dell'Interno con il numero 10324999— quasi avesse voluto riscattare con la propria realizzazione le vite oscure di coloro che erano stati la sua prima realtà, e che ancor oggi fanno con tanta e frequente irruenza parte di una sua responsabilità civile che l'attuale successo letterario non ha mai messo in forse.

Ma l'intenzione narrativa del Pianista non è solo autobiografica. Si sviluppa in un trittico «à rebours», una rivisitazione spietata della nuova intellighenzia e classe dirigente di oggi, disposte ad accettare il proprio dorato fallimento o ad appropriarsi di qualche fetta di torta. Questo per la prima parte, che serve da livido palcoscenico alla presentazione dei protagonisti. Prosegue con gli anni dell'immediato dopoguerra spagnolo, quelli che furono dell'infanzia dell'autore, e la sconsolata sopravvivenza dei vinti, ricca appena di una solidarietà gratuita e inefficace, una costrizione in cui ogni altra strada è preclusa. Tutti vinti: anche i vincitori. La miseria, insieme alla barbarie politica, ha attutito le menti, scavato gli stomaci, arretrato la storia. E ancora più in là col tempo, ecco la terza parte. Gli anni della speranza, quelli della breve Repubblica. Vissuti a Parigi, la Parigi del Fronte Popolare. Vissuti da un Rosell giovane nella speranza. La speranza emblematica di tutte quelle pulsioni che mossero anche Vázquez Montalbán, e non solo la generazione del pianista, a credere che un giorno si sarebbe conquistato il mondo, «si sarebbe dato l'assalto al Palazzo d'Inverno».

Ma il Palazzo d'Inverno, metafora sin troppo evidente di un'utopia di vita e non solo politica, riservava a tutti ben altre cose. Barcellona, in modo non dissimile dal resto del mondo, appartiene ormai ai vincenti. «La razza dei ricchi con cattiva coscienza si era estinta, sopraffatta forse da coloro che hanno la cattiva coscienza di non esserlo», dice Vázquez Montalbán in un altro suo testo. I ricchi in quanto vincitori morali. Eppure rimangono i po- veri, più che mai molesti, e per di più ingiustificabili ai loro stessi occhi.

Ed è questo tema, quello della riscoperta (direi quasi agnizione) dei perdenti, la visita partecipe ai perdenti che —seppur di continuo latente negli scritti dell'autore— appare qui come in un manifesto. La solitudine dei perdenti. «Dalla morte di dio», precisa Vázquez Montalbán, «il perdente è del tutto solo. La morte, quando per lui avviene, è definitiva. Non esiste ricompensa. Non parlo qui dei perdenti emblematici, con un ruolo, come García Lorca. Parlo di quelli oscuri. Quelli di cui non si scriverà. Quelli che non possono che essere dimenticati». Ed è così che con la voce di Andrés enuncia la necessità di «spedire messaggi da naufrago dentro una bottiglia per i posteri». È la propria gente che l'autore intende far sopravvivere, che vuole riscattare con la dignità, minima, della memoria. La vita dei propri genitori. (Il padre risiede ancora in quelle stesse vie; la madre conobbe il lusso di un appartamento con ascensore, compratole dal figlio quando, malata ormai come Teresa, non poteva più muoversi, sempre in quello scarso triangolo isoscele visitato dall'alto nella scorribanda sui terrazzi, oggi citato anche, in virtù del Pianista, sulle guide). E la propria storia: Manolo è riconoscibile nel bambino con i vermi, geloso per il ritorno del padre dalla galera, esaminato dall'indovina. E quella di tutti i personaggi, reali nel gioco di letteratura, che consoleranno il proprio sconforto sognando cieli di prosciutti, o imprese di guerriglieri che spariranno con poca fama e ancor meno gloria. E quella di Rosell, Rosell che perde due volte, tradito dai compagni di ideale politico, tradito anche nella carriera perché non sa tradire. Perdente. Perdente come le ragazze in fiore che finiranno mal maritate. Come i combattenti da entrambe le parti. Come Teresa, che canta per i tranvieri, lontana per sempre dall'Opera Comique e costretta a un'agonia sofferta da vegetale, tra i suoi ninnoli, in mezzo alla carta da parati con le pagode e i ritagli che esaltano Doria. Perdente Doria, il grande vincitore —oggi si dice vincente— non più musicista, ma servo di un'immagine fine a se stessa, che muta le proprie istanze avanguardiste e accetta di suonare per Franco, di difendere sulla stampa l'operato del dittatore, di diffondere la «musica di regime». Perdente come Ventura, traduttore nato per scrivere. Perdente come gli attivisti politici che si adeguano al ruolo di funzionari —alti o bassi— di municipi o governi. Perdente anche Vázquez Montalbán, che ormai vede, egli dice (mi si conceda in parte di dubitarne), gli esseri solo attraverso il filtro della letteratura, persa la sensibilità, con il potere redimente della pagina scritta, con l'apparente fruizione della vita in prima persona. «Protagonista della propria storia», proprio come aveva sempre per sé voluto e in alcuni invidiato. Ma di una storia che forse non è più la sua, una storia presenziata con alto mestiere e di cui gli è sfuggito, se non il protagonismo, l'argomento.

Ora Vázquez Montalbán, come il suo investigatore Carvalho, vive nei quartieri alti. A Vallvidrera. Dove il padre lo portava da bambino a fare merenda, ai loro piedi Barcellona, quasi per suggerirgli: «Un giorno tutto questo sarà tuo». Ma quando raggiunse Vallvidrera, Bar- cellona era già un'altra. I valori appresi in via Botella risultavano ai più incomprensibili, forse un tantino ridicoli. Il Palazzo d'Inverno, neanche preso d'assalto, aveva spalancato le sue porte, non era forse mai esistito. «Capisco ora che siamo noi, il Palazzo d'Inverno. Il Terzo Mondo preme già per farlo suo. E ci riuscirà, un giorno». Ha le mani pulite, anche se non ha mai abbandonato la vita politica. «Sarebbe come tradire mio padre». Ma non sa più a cosa serva o quanto funzioni. «Non credo nel destino, ma il destino esiste. Un caso che ci muove al di là dei meriti e della dedizione personale. Un mondo che non cambia immediatamente in seguito alle nostre azioni. Ma bisogna tentare di modificarlo. Il male non esiste come premessa religiosa. Accade. Bisogna tentare. Esisterà sempre una generazione di innocenti disposti a correre rischi etici. E che pagherà di persona». Molti dei personaggi del Pianista pagarono sin dall'inizio di persona. Fatti esterni, la longevità di un dittatore, equilibri imprevedibili, determinarono questo loro caso. Il loro diritto a una esigua sopravvivenza, indifferente a quanto venne loro consentito di realizzare, è ciò che Vázquez Montalbán vuole garantire con questo libro. Il diritto alle speranze brevi. Alla cosciente, o esaltata, o amorfa, o avvilita rassegnazione. Il valore anche di questa. Fatti che il nostro autore, con intenzione pure di denuncia, espone sempre. Gli stessi che indaga il celebre Carvalho. Che sconterà con la vita l'ambiguo tirannicida in Galíndez. Ma che solo nel Pianista appaiono con tanta nostalgica pienezza. Che solo qui l'autore ci consegna come movente primigenio e ultimo delle proprie scelte letterarie. Guardando l'esempio di Baroja, del miglior Machado, addirittura —come ci spiega il critico e scrittore J. G. Hortelano— quello di Quevedo. E forse ha ancora in mente quelle passeggiate con futuro mentre scendevamo le Ramblas, spingendomi ad affrontare testi di rottura, e mi insegnava l'allora clandestino Sartre, con termini che adesso neanche Manolo osa più pronunciare se non con ironia. E che oggi, qui, voglio invece rimemorare. Vázquez Montalbán ci indica una possibile formula, contemporanea e dubbiosa, di romanzo impegnato. Impegno come affaticata speranza. Quando tanto è perduto, perché solo dei vincitori sarà, è già adesso, il regno di qualsiasi terra. Speranza dell'esposizione e della memoria. Di un grave rispetto umano, mai pietistico, che sa mettere da parte ogni ideologia e si avvale della letteratura, unico mestiere concesso all'autore, per meditare non solo la storia, ma soprattutto la coscienza, di una nostra quotidianità, troppo spesso imperscrutabile. Elementi, palesi come uno stilema, indispensabili alla pagina del nostro Pianista.

Non a caso è stato Leonardo Sciascia a individuare per primo in Italia i meriti di Vázquez Montalbán e a volerlo vincitore, d'accordo con la giuria da lui presieduta, del Premio Racalmare per il 1989, appena un mese prima di morire. Tra i due autori vi fu un commosso e unico incontro nella casa di Palermo di Leonardo. Entrambi erano ben coscienti che non ve ne sarebbe stato un altro.

Rimane a Vázquez Montalbán di portare avanti la responsabilità che vidi confermata nei loro occhi.

Milano, agosto 1990.


*Hado Lyria (pseudonimo di Myriam Sumbulovich) è pittrice, poetessa e traduttrice in italiano della maggior parte dei libri di Manuel Vázquez Montalbán.