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PERCHÉ LA MEMORIA ABBIA UN FUTUROHADO LYRIA*«Ma gli spagnoli —è un'impressione: e può darsi sia un'impressione sbagliata— non amano parlarne, non amano ricordarla, quella guerra [...] Comprensibilissimo, dunque: e specialmente negli adulti. Meno comprensibile nei giovani: quasi volessero rimuoverne la conoscenza per volontà, quasi che la guerra civile fosse stato il tragico errore dei padri. Da dimenticare, sarebbe il caso di dire, per carità di padre.» «Senza fretta ma senza pause la stiamo dimenticando, generale, e dimenticare il franchismo significa dimenticare l' antifranchismo, lo sforzo culturale etico più generoso, malinconico ed eroico in cui resistettero manciate di donne e di uomini della razza di [..] Non voglio fare un inventario di martiri, né di lacerazioni, né di tempo perduto. Temo che tra cinquant'anni [...]»
Sarebbe troppo lungo elencare qui le connivenze politiche che portarono progressivamente la Spagna —e non ultimo lo stesso Partito Comunista quando il Generale era ancora in vita— a una politica di Riconciliazione Nazionale. Una riconciliazione che mirava più ai fini (globalmente encomiabili) che ai mezzi. Di conseguenza, e anche dopo il processo di transizione spagnola alla democrazia, è rimasta al potere o vi è tornata dopo un brevissimo soggiorno al limbo (ché non si può parlare nemmeno di purgatorio), la stragrande maggioranza dei complici del regime non eliminati, per dirla con Vázquez Montalbán, dalla loro stessa biologia. I poliziotti, e i torturatori, insieme con i dinosauri della politica, sono anche adesso, quando il secolo volge ormai alla fine, seppure sempre in più ristretto numero per ragioni di età, gli stessi di allora, perché di un esperto efficiente, come del maiale, nulla si butta, tant'è che vennero recuperati in blocco con assoluto disprezzo del cosiddetto «giudizio della Storia». Un'opposizione su cui esercitare le proprie belle arti si trova sempre, e il lungo, passato, governo socialista (di quello attuale, il governo Aznar, non si scoprono ancora troppo gli altarini) ha ampiamente spiegato con la sua «guerra sporca» all'ETA, i suoi «fondi segreti» e la sua doppia morale come anche la democrazia sappia e possa perpetuare la violenza. E mi permetto di far presente al lettore italiano che sto parlando di fatti non solo probabili ma tristemente provati; di fatti che, esposti a più riprese dalla stampa spagnola, sono stati di gran peso nella caduta del Governo González, il quale in tali fatti era stato non solo coinvolto, ma di essi risultò promotore, senza tuttavia un'intenzione espressa di ammettere le proprie responsabilità. Per non parlare della corruzione, inevitabile male minore incistato nella sostanza stessa del potere politico ogniqualvolta smette di fare politica. Pochi storici hanno voluto sino a qualche anno fa rivangare nell'ancora recente passato del fenomeno franchista. Adesso, come pure in Italia e nella mai innocente vecchia Europa, in Spagna è nata e cresce in buona salute la passione del revisionismo. Dopo un ventennio di «congiura del silenzio» fatta di riluttanza a lavare i panni sporchi persino in famiglia e, per ragioni diverse, da più parti politiche, insospettabili studiosi cominciano prima a immaginare, poi a individuare e infine a dimostrare, le molte virtù segrete di Franco. In Italia, del resto —per non insistere soltanto su Mussolini e sul suo ventennio— quando parve negli anni Ottanta che Andreotti fosse inamovibile dalla sua poltrona, gli stessi che sino ad allora l'avevano combattuto oppure più o meno giustamente osteggiato —e la sinistra per prima— cominciarono a trovarlo a dir poco incantevole: «Così salottiero, così spiritoso», tentava di convincermi la moglie di un noto dirigente politico dell'opposizione storica, anch'egli ormai vagamente caduto in disgrazia. Si tratta, certo, di un parallelismo di circostanze assai ricercato. Tuttavia, vi è una curiosa capacità che accomuna senza attenuanti alcuni dei più recenti e spicci revisionismi: la volontà precisa non già di dimenticare, ma di insabbiare con presunti nuovi dati i fatti della storia allo scopo di farla dimenticare. Ottenendo con ciò non solo di farla dimenticare, ma di operare una censura. Ora, se la censura non è imposta da gravi circostanze —dispoticamente dall'alto, dal terrore, dal rischio immediato della propria vita e di quella dei propri famigliari; o nel caso che essa nasca da dolorose rimozioni da lutto non elaborato—, e quando mette radici (per celia o per interesse) nella coscienza individuale per diventare ben presto autocensura: non è forse, e non solo, rinuncia alla propria dignità, ma addirittura panico della libertà stessa? Dimenticare, non voler ricordare, deridere i propri ricordi ed evitare di trasmetterli a chi come propri non ha potuto viverli, non diventa quindi trasparente complicità con il passato e con ogni sua colpa, anche con quelle mai personalmente commesse? Ancora una volta Manuel Vázquez Montalbán esercita in questo Io, Franco, e con la strabiliante forza della sua scrittura, il vecchio diritto della pagina di denuncia sociale e politica, un diritto che in periodi di diversa difficoltà ci aveva nutriti e ci era sembrato inalienabile. E al nostro Autore poco importa che ormai in tanti lo considerino un diritto —nel suo caso, un dovere etico— non solo desueto, ma obsoleto. Non a caso, da vero scrittore di razza, ha saputo inventare l'espressione romanzata della vita del dittatore e la voce —singola ma corale— di una delle sue molte vittime, per esprimere i propri non astratti furori ed evidenziare così facendo le insidie delle nuove torri di avorio: i figli di Pombo, passivi protagonisti di un presente mediocre, ne pagano problematicamente le conseguenze. Perché le contemporanee torri di avorio sono le nuove mistificazioni del reale, le quali si sviluppano e modificano, come i più moderni virus, con imprevedibile astuzia e velocità, quasi a impedire la loro individuazione. Voglio citare, insieme con Vázquez Montalbán in successivi suoi testi e a titolo di esempio, il fenomeno del dilagare quasi-snobistico del neoliberismo e delle teorie popperiane. Della ahinoi ripescata mistica del nuovo, già presente nelle gravi dittature di destra e di sinistra che tanto hanno afflitto questo «secolo breve». Della rinuncia alle responsabilità individuali, e quindi al libero arbitrio, dietro lo schermo del condizionamento sociale. Di Io, Franco scrisse al pubblicarsi della sua prima edizione, sulla rivista L'indice, lo storico Nicola Tranfaglia: «Una lezione di storia, insomma, con le armi e le caratteristiche del romanzo. Montalbán è preoccupato, come si legge nei dialoghi delle ultime pagine, della grande perdita di memoria nel nostro tempo, di chi vuol far dimenticare che cosa è veramente accaduto». E prosegue: «lo siamo anche noi e ci chiediamo perché in Italia nessuno abbia ancora scritto un Io, Mussolini con le intenzioni e la scrittura di Montalbán. Di questi tempi non sarebbe —crediamo— una cattiva idea. Ma forse nel nostro paese non ci sono ancora scrittori versatili e ispirati dalla storia come il nostro autore spagnolo». Serva, quindi, questo libro di Manuel Vázquez Montalbán, non solo a ispirare alla scrittura gli autori italiani, ma a ciascun lettore perché voglia farsi memoria implacabile del proprio passato e del nostro vivere d'oggi. Una memoria critica che sappia rendere, innanzitutto, consapevole testimonianza: nella coscienza e nella determinazione civile di ognuno di noi sta, ancora una volta, il migliore futuro della migliore memoria. *Hado Lyria (pseudonimo di Myriam Sumbulovich) è pittrice, poetessa e traduttrice in italiano della maggior parte dei libri di Manuel Vázquez Montalbán. |