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La Pasionaria e i sette naniROSSANA ROSSANDAL'INDICE dei libri del mese, maggio 1997.Un mese fa Manuel Vázquez Montalbán presentava a Roma, al teatro Argentina, la traduzione italiana di Pasionaria y los sietes enanitos, che aveva pubblicato in Spagna nel 1995. Un gruppo di studenti lo ha assediato di intelligenti domande sulla sua opera e le lettere catalane: il commissario [sic] Pepe Carvalho è stato assai presente. Dolores Ibárruri del tutto assente. Quando Vázquez Montalbán ha spiegato, nel suo allegro idioma italo-castigliano, perché rivisitava la figura mitica di una generazione cui per età e sensibilità non appartiene, è stato ascoltato con rispetto ma senza curiosità. Due o tre anziani in sala, uno dei quali ricordava perfino un fortunoso ascolto di un discorso di Pasionaria, poco erano interessati a quel viaggio filiale né alla sua singolare forma. Avevano torto i giovani e i vecchi. Questa di Montalbán è un'opera letteraria, una sperimentazione fra storia e meditazione, che rinvia gli interrogativi dell'una e dell'altra. La vicenda biografica di Dolores Ibárruri non presenta misteri, e tanto meno quella simbolica: è la bandiera del comunismo spagnolo della prima metà del secolo, sullo sfondo di quella guerra civile che segna la coscienza europea e che lei attraversa d'impeto, fra folle che l'ascoltano, galere e trincea. Alta e diritta, gli occhi nerissimi nel viso affilato, i neri capelli raccolti sulla nuca, sempre vestita di nero. Dolores è la versione iberica della Liberté qui guide le peuple, l'irruente immagine femminile che Delacroix aveva dato alla rivoluzione. Forse un poco più madre, più amore e dolore che seni e capelli al vento. Ma non meno forte. Pasionaria —passiflora, il fiore della Passione— era il nome di battaglia che s'era scelto lei firmando i primi articoli a ventitré anini. Era nata in Biscaglia nel 1895 da una famiglia di minatori, cattolici, a scuola faceva scintille, per qualcosa ardeva sempre, avrebbe voluto farsi suora, ma a quindici anni cuciva da una sarta, a diciotto serviva al banco d'un modesto locale. Là avrebbe conosciuto Julián Ruiz, minatore, che avrebbe sposato. Sei figli, quattro perduti ancora piccini, di malattie e stenti, un matrimonio senza sole, tutto gravidanze e lutti. Ma Julián era socialista, di quel socialismo venato d'anarchia che è proprio della Spagna, e la portava verso quelle battaglie proletarie nelle quali essa avrebbe trovato assieme un senso e una via d'uscita. Con Julián aveva preparato il durissimo sciopero del 1917. L'anno seguente cominciava a scrivere per "El minero bizcaíno". Poi avrebbe scritto sull'organo centrale dei comunisti, "Bandera Roja". Dello sfruttamento sapeva tutto, della lotta operaia anche, nel libro della femminista Margherita Nelken aveva riconosciuto la sorte inaccettabile delle donne che era stata sua. Per lei, la milizia fu la via dell'emancipazione totale. Nel 1929 era nel Comitato centrale del partito comunista di Spagna e nel 1931 si sarebbe separata per sempre dal marito, andando a lavorare presso la direzione, a Madrid, con i due figli rimasti, Rubén e Amaya. Si chiudeva a trentasei anni la prima parte della sua vita. La seconda l'avrebbe vista percorrere la Spagna da dirigente comunista, organizzatrice, oratrice diretta e trascinante, deputata delle Asturie nella tempestosa repubblica e poi in lotta contro il sollevamento di Franco. Andrà in galera tre volte e dovrà separarsi dai figli spediti a Mosca. Dal 1935 era il più importante dirigente del Pce dopo José Diaz, tutte le tormente della caduta della repubblica, della guerra civile e delle rotture che la traversano sono sue. Nel 1939 è la sconfitta, e sarà segetaria d'un partito in esilio —un partito battuto, desterrado, lontano dalla sua terra e dalla sua gente, ospite del solo fratello che accettava di accoglierlo, quello bolscevico, potente e prepotente. Lo avrebbe diretto fino al 1960, quando cedette il posto a Santiago Carrillo, restandone presidente fino alla morte nel 1989. Data della fine d'un epoca. Poche donne sono state più esposte e traducibili in simbolo pubblico anche per quel che ne investiva l'interiorità —la perdita dei figli, la separazione, poi un non nascosto e contestato amore per un compagno più giovane. Non ha misteriosi risvolti, Dolores, non c'erano carte da scoprire, ammesso che abbia avuto tempo di raccoglierne prima della lunga vecchiaia solitaria, appena placata dalla figlia rimasta, Amaya, e dal calore di apparizioni pubbliche sempre più celebrative. Per uno storico, Ibárruri non fa problema. Ma Vázquez Montalbán non vuol fare opera storica, anzi mette scherzosamente in guardia gli storici che volessero disseccare l'opera sua. Vuole essere una meditazione sui due livelli effettivi di Pasionaria: la dirigente comunista nella trama fitta della storia e il mito che ha rappresentato per la poesia spagnola dei grandi, da Machado a Hernández e Alberti, che la segue come la coda d'una cometa, ma testimonia più che di lei dell'immaginario che in lei si fissa, Dolores come la madre da cui veniamo, la terra che ci nutre, la rivoluzione come ricominciamento. Un fantasma ctonio, iberico, maschile? Montalbán sceglie una chiave interpretativa diversa, meno rutilante, assieme distante e tenera: Pasionaria come Biancaneve. Quella della favola come la intende Bettelheim, la fanciulla bella, saggia e di sicuro candore, tanto più grande di chi le sta attorno, dei sette nani, da Francisco Franco ai leader della repubblica e del partito. In essi e nell'arazzo fitto dei minori —il libro è un'arca di informazioni— Montalbán non vuole indicare la piccolezza degli altri, ma quella sorta di bianca grandezza di lei, più composta che infiammata nel brulichio d'una storia di fatica e sangue. Ha ragione? Probabilmente sí. Ibárruri non ha idee grandiosamente innovative. Rosa Luxemburg ha lasciato ben altre tracce nel movimento operaio —i suoi lineamenti sotto gli assurdi cappelli che la fiera testa di Dolores non portò mai, sono sbiaditi, ma le idee sono restate nella loro carica inquietante. Alessandra Kollontaj fu più colta e spregiudicata di Dolores, ma neppur da lontano ne ebbe il carisma. Ibárruri non rompe né il dettato del partito né quello dei costumi. Dove sta per Montalbán la sua grandezza? Nella coerenza e fedeltà a una grande storia che tutto tendeva a distruggere. Biancaneve come intrepida e innocente custode di una continuità. Questa è la tesi di Montalbán, il filo che segna lei, Pasionaria, nella densa trama di anni oscuri. Perché è eroica ma piena di lampi feroci la storia dei comunisti spagnoli, stretti come in nessun altro paese fra l'anarchismo più vasto d'Europa e la grossa scia socialista. Repubblicani, legati all'Urss che, sola, aiuta la Spagna repubblicana quando il popolo vuole andare oltre —"Terra e libertà", come si chiamiava l'antico foglio e riprende il film di Ken Loach— i comunisti sono assieme la parte ragionante e quella che spara a chi va in direzione diversa, oltre. Perpetua contraddizione, duplice impotenza. C'è stato un dilemma per Pasionaria? Che cosa sapeva e pensò dei giorni di Barcellona, della repressione del Poum, del massacro fisico e morale di Andreu Nin? Tutto e niente se le parvero atti necessari sul cammino dove bisognava andare. Necessario non è sinonimo né di bello né di buono. E in ogni modo Dolores è la madre e gli sbagli d'una madre sono un tipo speciale di sbagli che i figli, specie maschi, assolvono sempre. Molto tempo dopo, il Pce a Mosca non vedeva nulla del lento uscire della Spagna dal baratro. Forse da lontano non si poteva percepire. Quando due compagni, Fernando Claudín, un "vecchio" dell'Ebro, e un intellettuale giovane, Jorge Semprún, lo compresero, avevano scontata la resistenza dell'apparato ma credettero fino all'ultimo che Dolores avrebbe capito quel che era vitale cogliere. Nel castello in Boemia dove si svolgeva la scena definitiva, Pasionaria ascoltó a lungo in silenzio e quando parlò, fu per buttarli fuori —nelle tenebre, scrive Semprún, l'ex Federico Sánchez, che non glielo ha né si è mai perdonato. Vent'anni dopo, incontrandolo, Biancaneve s'era scordata di averlo politicamente ucciso. Questo ridisegna Montalbán in un libro scabro e denso, srotolando un vecchio tappeto nei colori e nelle pieghe che parlano e non parlano. Una storia vera, diversamente da una fiction, è piena di grida e di non detti. Avevano torto i giovani e i vecchi che cercavano di sentire altro, all'Argentina; l'avvenuto si confessa problematico nella scrittura e viceversa. |