M.V.M.

Creato il
1/12/97.


IO E L'ITALIA.

MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN.


Già nel Rinascimento ci era arrivata la proposta dell'endecasillabo attraverso Andrea Navagero, la cosiddetta metrica italiana che generó dispute acerbe contro i poeti tradizionalisti spagnoli, fermi all'ottonario. Nel Rinascimento scrivere in ottonari fu in qualche momento un segno di non claudicazione di fronte "agli stranierismi". Passarono gli anni, anche i secoli, e alla fine del XVIII la borghesia catalana incominció ad affezionarsi alla pasta italiana e al parmigiano come condimento indispensabile. Al porto di Barcellona arrivavano mercanti italiani carichi di questi esotici piaceri e da allora la pasta si è incorporata piú alla cucina catalana che alle altre cucine della Spagna. Vorrei che questi aneddoti servissero ad inserire nella categoria della influenza italiana non solo la poesia, ma anche la gastronomia.
    Io sono nato nel 1939, in pieno flirt tra i regimi franchista e mussoliniano. Il cognato di Franco, Serrano Suñer, dava del tu al conte Ciano, e il Duce, nell'incontro di Bordighera con Franco, gli diede un consiglio che il dittatore spagnolo rispettó per tutta la vita: "Non affronti la Chiesa né la moda delle donne". Franco non solo rispettó questo saggio consiglio del signor Benito, ma cercó di inculcarlo anche ad altri statisti, per esempio a Perón, che non lo ascoltó e sappiamo come andó a finire. Dalla mia prospettiva di spagnolo che aveva perso la Guerra Civile prima di nascere, ho dovuto sopportare alcuni anni di cultura parafascista italiana residuale e quando sono stato in condizione di imparare ad essere un intellettuale, avido lettore di tutto ciò che potesse cadere nelle mie mani, allora il franchismo si mostrava già molto cauto nei confronti della nuova cultura letteraria italiana e continuava soltanto a tollerare Papini, Alba de Céspedes, Malaparte (non tutto) e se tollerava il cinema neorealista critico dei primi anni era perchè lo utilizzava come dimostrazione del fatto che non solo in Spagna soffrivamo la fame ed il freddo e dovevamo ricorrere al pane con fantasia.
    Quando abbandonai la condizione di ricettore passivo di prodotti culturali e mi mossi verso la cultura di cui avevo bisogno per riaffermare le mie prime impressioni sull'ordine ed il disordine del mondo, era quasi obbligatorio ricorrere alla cultura francese democratica, di piú facile accesso clandestino data la vicinanza della frontiera, e avallata dal fatto che il francese era una lingua di cultura abbastanza abituale in Catalogna. Ma ricordo l'impatto che mi provocó negli anni Cinquanta il mio primo incontro con la cultura italiana democratica del dopoguerra, attraverso Lavorare stanca, che mi portó dall'Italia un'amica di Barcellona, Myriam Sumbulovich, con un piede a Milano, l'altro a Barcellona e le mani cercando lune di quadri di Chagall e assieme a quella edizione di Einaudi, che mi pare di ricordare che includeva anche I mari del sud e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, mi accecó anche un libro di Gramsci, le sue lettere dal carcere, che mi mise sulla strada della precoce conoscenza dell'opera gramsciana, ed insisto sulla precocità perchè Gramsci è stato quasi uno sconosciuto in Spagna fino alla metà degli anni Sessanta. Myriam Sumbulovich, oggi mia traduttrice all'italiano sotto lo pseudonimo di Hado Lyria, ed il suo amico, l'ormai scomparso Mario Spinella, furono i miei fornitori a distanza di quanto di nuovo e buono produceva la cultura italiana degli anni Sessanta.
    Ma, come se fosse rimasta pronta all'attacco della mia curiosità e avesse approfittato dell'apertura di uno spiraglio, improvvisamente la cultura letteraria italiana entró nella mia vita con una forza tale che finí per scavalcare quella francese. Il Pavese romanziere, Pratolini, Gadda, Moravia, Piovene, Vittorini, Ungaretti, Montale, Della Volpe, Pasolini... Ricordo l'emozione che rappresentó per me, in piena crisi della mia concezione della funzione sociale e politica della letteratura, la lettura di un articolo di Pasolini su Ulisse, rivendicazione dell'irrazionalità come territorio di ricerca e strumento di percezione che non doveva essere lasciato nelle mani della borghesia e la audacia di Della Volpe nell'operazione di leggere e scrivere (in qualsiasi codice) che andava oltre il dibattito tra la semplice decodifica linguistica e l'interpretazione ideologica. Buona parte di quelle letture mi arrivarono in carcere dove ero recluso e la mia amica barcellonese-milanese fu un ponte privilegiato che mi fece diventare un buon conoscitore della cultura italiana piú avanzata, ponte completato con l'amicizia di José Agustín Goytisolo, forse lo scrittore della resistenza antifranchista piú vicino al mondo culturale italiano. La politica editoriale di Seix Barral, diretta da Carlos Barral, mi rende familiari mostri dell'editoria come Einaudi o Feltrinelli e ricordo che aspettavo con vera ansia la possibilità di leggere Europa letteraria o Rinascita o Critica marxista, esponenti di una sinistra culturale che apriva prospettive abbaglianti a noi rinchiusi nella caverna franchista e nella subcaverna della precaria teoria critica della sinistra spagnola.

Manuel Vázquez Montalbán
(Foto S. Sansuán).
    Se l'impatto fortissimo della cultura democratica italiana, tra Pavese e Sanguinetti ed il gruppo 63, mi aiutó e ci aiutó a percorrere a gran velocità la relazione spazio-tempo della normalità culturale, controllata con tanto zelo dal franchismo, dall'Italia ci arrivó anche un culto al formalismo che si offriva a questionare l'ordine prestabilito. Barcellona fu il porto di arrivo del design italiano degli ani Sessanta e di tutta una filosofia preoccupata per il cambio sociale e storico dalla dimensione immediata della quotidianità. Non c'era infatti negli arredatori italiani una proposta per mettere in dubbio il programma di vita borghese? Combattere contro la poltrona patriarcale non significava un contributo alla critica della famiglia di Marx ed Engels? Dall'Italia arrivó in Catalogna una rivoluzione del gusto che implicava il mobilio, l'architettura, l'urbanistica, una concezione utilitaristica e nello stesso tempo ludica dell'arte che venivano a predicare alla fine degli anni Sessanta e all'inizio dei Settanta personaggi come il brasiliano Maldonado, Gregotti, Gillo Dorfless e un tal Umberto Eco, già allora molto rispettato come teorico della comunicazione. Il mio incontro con Eco come saggista mi risveglió il ricordo piú antico dell'italianizzazione della mia coscienza, la lettura del Cuore di De Amicis, un libro determinante nella mia educazione sentimentale, come lo fu per tante generazioni di europei dagli inizi del secolo fino alla guerra di Corea. La guerra di Corea eliminó qualsiasi possibilità di innocenza autoingannata nel genere umano.
    Se i messaggi ricevuti negli anni Cinquanta e Sessanta proponevano una corrispondenza e stabilivano un contatto tra due drammi complementari: la catarsi della grande cultura italiana liberata dal fascismo ed il nostro bisogno di ricevere compagnia ideologica di culture piú avanzate ed emancipate, quel che ci arrivava dall'Italia che si avvicinava agli anni Settanta aveva nell'incubatrice i germi della confusione. Da una parte l'apogeo della ricerca formale, prima presentata come sfida a tutti i codici filistei, e dall'altra la feroce autocritica all'insuccesso della cultura trasformata della sinistra, che avrá in quella proposta formalista la propria confessione di impotenza. L'Italia che da un culturalismo raccolto in se stesso rinnega la propria cultura critica è la stessa che dà nuova vita ai Quaderni Piacentini ed ai Quaderni Rossi, che ci arrivano come un sorprendente esercizio di sovversione all'interno della sovversione. Accanto alla provocazione critica di queste pubblicazioni, Il Manifesto sembrava un giornale accademico e Rinascita un organo espressivo e limitato dal pareggio storico incarnato in modo teatrale e ricco ma anche tragico nell'Italia di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Ma questo aveva tutt'altra accelerazione e mancava della tradizionale legittimazione che dava vita alla cultura critica postbellica. L'Italia stava incubando il pensiero debole quando in buona parte del resto d'Europa non si erano ancora accorti della sconfitta del pensiero critico come strumento di trasformazione del reale.

    Se durante vent'anni la cultura spagnola piú avanzata andó a rimorchio dell'Italia, cosí nel design di giacche di pelle, come di strategie della sinistra (policentrismo, compromesso storico, eurocomunismo) come di sex symbols mentali (Alida Valli, Sofia Loren, Monica Vitti, Laura Antonelli), improvvisamente, in un punto difficile da determinare degli anni Settanta, mi accorsi che la società spagnola si era incorporata ai paradigmi civilizzatori e culturali del neocapitalismo, la MORTE di Franco aveva significato l'adeguamento di una infrastruttura parademocratica alle superstrutture corrispondenti, ricevevamo la stessa informazione, la stessa disinformazione, le stesse colonizzazioni fondamentali e un ruolo simile nella divisione internazionale dell'ordine economico e culturale, anche se la Spagna era ancora ad una considerevole distanza dall'Italia nell'obbedienza ad un modello di sviluppo sociale e nel vantaggio di un sottostrato culturale installato meglio nella contemporaneità.
    Ebbene, anche se mi stupí Pasolini e soprattutto la sua estetica dell' autogiustificazione marginale come provocazione, la grande sorpresa che io ho ricevuto dall'Italia, l'ultima fino adesso, è stata la scoperta dell'opera di Sciascia, non solo per il suo oggettivo valore letterario, ma anche per la simpatia automatica che mi suscitava la posizione morale che indovinavo dietro a quello "sguardo" di scrittore. Stranamente, uno scrittore che apparentemente girava intorno a questioni tanto "locali" come il pareggio storico italiano, il doppio potere, la doppia verità, il complotto come stato permanente nella relazione tra suolo e sottosuolo, con materiali passati e presenti siciliani ed una tecnologia letteraria crogiolo di molti e diversi patrimoni letterari e paraletterari, otteneva una letteratura rivelatrice del disordine del nostro tempo come nessun'altra letteratura specificatamente politica o collegata con quella che in qualche momento era stata chiamata "letteratura di tesi" era riuscita ad ottenere. Dopo tutti i naufragi della ragione sistematica e totalizzatrice, Sciascia acquisiva di nuovo l'innocenza razionalista, quella del primo razionalista, come ipotesi di partenza per scoprire l'immensità del disordine che ci veniva offerto come ordine inevitabile, un ordine tanto inevitabile come il presente, l'unica dimensione temporale che aveva senso in relazioni di dipendenza nelle quali la memoria diventa rumore ed il futuro una pericolosa proposta di insoddisfazione ed utopia. Come se ci proponesse, alla maniera leninista, di fare un passo avanti per poi farne due indietro, Sciascia ci situava nella preistoria del contratto sociale e ci mostrava l'orrore cui aveva dato luogo, ma anche la necessità di ristabilirlo su delle nuove basi.
    O magari semplicemente cercó di dare un nome al rifiuto della nausea e del tedio come minaccia contro la crescita dello spirito, ed in italiano quel nome era impegno, parola molto difficile da tradurre in spagnolo, ma che io amo mettere in relazione all'obbligo costante di Prometeo di togliere il sapere agli dei per darlo agli uomini e cosí disalienarli.
    Ho avuto altri rapporti con la cultura italiana che confesso con pudore. Ho tradotto alcune opere di Volponi, Mastronardi e Pratolini dalla sfacciataggine del giovane neolaureato che ha bisogno di soldi. Spero non solo che questi splendidi autori mi abbiano perdonato, ma anche che né loro né i loro eredi mi chiedano mai un risarcimento danni.

Da Lo scriba seduto, ed. Frassinelli, 1997. Trad. di Hado Lyria.
(Traduzione di questa pagina: Carlo Andreoli).