M.V.M.

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17/11/97.


GENERALE POCHE STORIE

STEFANO MALATESTA

La Repubblica, 19 / 10 / 1993.


Manuel Vázquez Montalbán
(Foto Joan Cortadelles)
    La transizione dal franchismo alla democrazia è apparsa a molti una sorta di miracolo storico. Come se in Spagna, in pochi anni, si fosse realizzato l'equivalente di tutte le rivoluzioni mai avvenute. In modo concentrato e senza spargimenti di sangue (soprattutto se rapportato al milione di morti della guerra civile). Ma Manuel Vázquez Montalbán ha sempre sostenuto che si era dimenticato troppo. Non che lo scrittore chiedesse vendetta, lui come tutti gli altri delusi e a disagio nella Spagna consumistica (ora non piú tanto) di Felipe González: solo una ragionevole comprensione del passato. Al di là di un'occasione editoriale Io, Franco, che sta uscendo in questi giorni in Itaia, è quindi un tentativo di rimediare ad una perdita di memorie. Per evitare che i panni sporchi, come dice Montalbán, rimanessero sporchi.
    Pubblicato con successo l'anno scorso in Spagna per il centenario della nascita del dittatore spagnolo, Io, Franco si presenta come un romanzo storico a due voci. «Un giovane editore yuppie vuole fare un libro didattico su Franco per la gioventú d'oggi», racconta Montalbán. «Lo scrittore incaricato del lavoro, il classico mediocre scrittore di casa editrice, un vecchio, ma non tanto, militante, un perdente storico come me, si mette allora a scrivere la biografia di Franco come se Franco parlasse in prima persona, come un'autobiografia. Franco si racconta, parla delle sue imprese, non si giustifica, si vanta, interrotto e contestato dallo stesso scrittore, che non puó fare a meno di intervenire, di rispondergli o meglio, di contestare l'altro suo io, che fa Franco. Insomma, un espediente letterario. Ecco perchè lo definirei un romanzo e non un libro di storia».

—Alcuni storici hanno osservato che dal libro esce un Franco migliore di quello che in realtà era. Un Franco piú intelligente, piú intellettuale, nutrito di buone letture.
—In un certo senso è vero, perchè è lui che parla di se stesso e cerca naturalmente di presentarsi bene. Le autobiografie sono sempre un falso.

—E quanto c'è di Montalbán nello scrittore perdente?
—Solo una parte. Io sono nato nell'anno che segnò la fine della guerra civile, lui è un po' piú vecchio di me. Questa retrodatazione anagrafica mi ha permesso di raccontare meglio cosa ha significato, per milioni di persone, vivere con Franco e contro Franco. È stata una totale distruzione, fisica, psicologica, culturale. È stata la vittoria dei settori piú conservatori di tutta la storia spagnola, una vendetta contro il processo di ricostruzione della ragione, iniziato in Spagna nel '700, poi continuato nell'800 e nel '900 attraverso il movimento operaio. Vede, non è poi cosí difficile scrivere una storia cosiddetta oggettiva, una storia di carattere scientifico. Ma io ho un certo timore verso questo tipo di storia incapace di descrivere quali fossero i sentimenti, le paure, le impotenze della vita di ogni giorno. Nel libro ho voluto ricostruire la memoria, cancellata dal franchismo, di tutti quelli che avevano perso la guerra.

—Ho visto che si è molto documentato su Franco. Nei documenti esce fuori la stessa immagine che si portava dietro di lui?
—La stessa, grosso modo. Il mio rapporto con Franco è antico, risale agli anni '70 quando una casa editrice antifranchista, che era a Parigi, mi chiese di scrivere una sorta di catechismo del dittatore. In quell'epoca andava molto il libro rosso di Mao, io ho fatto una cosa analoga, un libro dei pensieri di Franco. Si chiamava Il libro Pardo del generale, dal colore della bandiera militare e dal nome del palazzo, e venne distribuito clandestinamente in Spagna. Dopo la morte di Franco l'ho riscritto in un'edizione allargata, una vera antologia, ma anche un'analisi critica di quello che era stato il fascismo alla spagnola, seguendo un po' il metodo applicato da Togliatti per spiegare il fascismo italiano.

—Il libro parte da Franco ancora bambino. Ha avuto un rapporto molto forte con la madre, è l'unica persona di cui parla con termini umani.
—Nel Franco bambino si puó riconoscere il Franco adulto. Suo padre, anche lui un militare, era un uomo abbastanza aperto, infinitamente piú aperto di come sará poi il figlio: un massone o simpatizzante per la massoneria, che ad un certo punto abbandonó la moglie per un'altra. Fu un trauma che sconvolse la famiglia. Credo che in Franco legatissimo alla madre, abbia operato come un processo di identificazione tra sua madre e la Spagna. Il padre era un traditore, il traditore di sua moglie, ma anche il traditore liberale della Spagna conservatrice e cattolica, l'unica Spagna per cui, secondo Franco, valesse la pena di vivere e di combattere.

—Ma che tipo di uomo era Franco? Solo un mediocre con un'immensa ambizione...
—Un bravo, crudele soldato, di una crudeltà fredda, senza nervi. Uno che ispirava paura negli altri ufficiali dell'esercito, anche per la sua inumana, durissima applicazione del regolamento militare. Un uomo personalmente coraggioso, che non aveva paura di morire e che quindi non ci pensava due volte a far uccidere, un complessato per varie ragioni, modesta origine, scarsa cultura, senza padre, che trovó nel potere una forma di compensazione, diventando molto sicuro di sé. Un generale con la mentalità di un comandante di reggimento che nella vita militare aveva tutto il suo mondo. Aveva letto o sentito qualcosa sulle teorie francesi che non ci sarebbe mai piú stata una seconda guerra mondiale dopo la spaventosa esperienza della prima. Allora quale sarebbe stato il ruolo dei militari? Secondo Franco doveva essere un ruolo interno al paese: schiacciare il movimento operaio, fermare la rivoluzione prima che fosse troppo tardi. È stato capace di un odio infinito verso i comunisti, ma anche verso i massoni, accusati di essere stati i veri colpevoli della sconfitta con gli americani nella guerra per Cuba.

—Mi sembra che l'uomo politico che piú assomiglia a Franco sia Pinochet, anche lui un militare.
—Pinochet ha sempre detto che il suo modello era Franco. E Franco a sua volta ha avuto una grande ammirazione per Mussolini e facilità di rapporti. Ma erano molto diversi in quasi tutto, uno istrione e vero demagogo, conquistatore con le donne, l'altro riservato, circospetto, diffidente e timido con le donne. Solo durante la guerra Franco imita Mussolini nella sua teatralità, diventa anche lui un po' attore, per ritornare il Franco di sempre alla caduta del fascismo internazionale. Il suo rapporto con Hitler era invece molto piú difficile: non capiva come potesse parlargli in privato come un uomo di stato, poi uscire in strada e agitarsi come un pazzo davanti al microfono.

—Come ha fatto un uomo con tanti limiti a vincere prima la guerra civile e poi a mantenersi al potere per tanto tempo?
—Per la complicità della destra spagnola tradizionale, della Chiesa, di tutti i poteri. Riuscí a vincere la guerra civile perchè venne aiutato da una situazione internazionale favorevole. Non solo la destra europea, ma anche Churchill e Roosevelt avevano paura che una vittoria dei repubblicani potesse significare una vittoria del comunismo, una vittoria dell'Unione Sovietica. Mentre Franco, anche con i suoi difetti, rappresentava un baluardo sicuro contro i movimenti che facevano capo all'Internazionale comunista.

—Ci sono state anche molte colpe della sinistra: settaria, divisa...
—È vero, ma non solo della sinistra spagnola. Il Fronte Popolare francese non riuscí ad aiutare i repubblicani per paura di un intervento di Hitler. Gli Stati Uniti fecero il doppio gioco, condannando formalmente il franchismo, ma aiutandolo sotto banco con il petrolio, con la banca Morgan e cosí via.

—L'abilità di Franco è stata anche quella di utilizzare in suo favore forze non solo di estrema destra, ma moderate.
—Dopo la seconda guerra mondiale gli intellettuali fascisti contano sempre di meno. Mentre contano sempre di piú le forze cattoliche, prima l'Azione Cattolica e poi l'Opus Dei. È l'Opus Dei che nel 1957, con il piano di stabilizzazione e con quello dello sviluppo economico, incomincia a svecchiare il regime, ad indirizzarlo verso il capitalismo, verso una qualche modernità.

—Quindi Franco, alla fine, si è dimostrato se non un buon politico, almeno un politico opportunista, capace di andare con i tempi?
—Lascia fare con una certa resistenza. Nel 1956 in Spagna c'è una crisi economica terribile, fame, disoccupazione. I suoi uomini di finanza vanno da lui, gli spiegano che cosí non si puó andare avanti, che bisogna smetterla con un'economia autarchica, che bisogna aprire al capitale straniero, al turismo, che bisogna permettere ai lavoratori spagnoli di emigrare verso il resto dell'Europa. E Franco dice di sí, sapendo che non c'è altra scelta. Ma comprendendo bene, nello stesso tempo, che la logica della modernizzazione avrebbe, prima o poi, portato all'indebolimento del regime, all'omologazione della società spagnola con la società europea e alla nascita o alla rinascita di un'avanguardia critica, nemica del franchismo.