M.V.M.

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29/3/02.



L'incubo argentino

MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN

Il Manifesto, 22 / 12 / 2001.


Le dimissioni del presidente De la Rúa si producono su un paesaggio di saccheggi e cadaveri, di fame e morte, una volta ancora all'ombra di un "inevitabile" intervento militare. Il fallimento del fronte che le forze progressiste moderate hanno strutturato sui radicales, cercando di strappare gli argentini dalla lunga agonia di ciò che un tempo si chiamava peronismo, ha iniziato a evidenziarsi quando queste truppe progressiste di complemento sono andate in pezzi e i radicales si sono ritrovati soli davanti all'evidenza della loro impotenza nell'affrontare la crisi. Quella attuale fa parte della lunga crisi di un paese definito "potenzialmente ricchissimo" così tante volte che ricordarlo sembra già un luogo comune.
A che si deve l'attuale situazione di bancarotta che suscita desideri di esilio economico in buona parte degli argentini? La cattiva amministrazione del governo De la Rúa figura tra le cause, così come la durezza con cui la crisi asiatica ha colpito il Mercosur (Mercato comune sudamericano) o i problemi di indebitamento ereditati dai tempi del falso ottimismo economico delle giunte militari. Ma stiamo anche parlando di un paese dove le riviste di massima diffusione utilizzano un ministro di Menem per parlare della corruzione in questi termini: "Se smettessimo di rubare per due anni, l'Argentina sarebbe il paese più ricco del mondo". Varrebbe la pena di provarci, due anni non sono un'eternità, una volta superata la sorpresa dell'autoimplicazione dello stesso signor ministro nelle violazioni del settimo (credo) comandamento.
Cause più profonde vengono dallo squilibrio strutturale dell'economia argentina e della perpetua, crescente, ormai già drammatica fuga di capitali. La mancanza di solidarietà del capitalismo nazionale viene da lontano e si è complicata con l'entrata di lobby compromesse col narcotraffico, che hanno lavorato come termiti nelle strutture di potere di buona parte dell'America latina "democratica". In altri tempi si sarebbero potuti accusare i sindacati, il corporativismo ancora colorato di peronismo, di comportarsi come strumenti di destabilizzazione dell'economia. Lo sterminio durante il "processo", ossia la dittatura di Videla e compagni, dei quadri sindacali più politicizzati, più propensi a un intervento dei lavoratori per modificare lo stato, ha accentuato l'indefinitezza di sindacati che restano comunque potenti.
Se De la Rúa ha estratto Menem dagli arresti domiciliari per passeggiarci insieme davanti agli obiettivi della tv, lo ha fatto per richiamare disperatamente un provvisorio consenso sociale, avallato da ciò che restava del menemismo nel sindacalismo argentino. E' difficile misurare fino a che punto il menemismo sia un incubo che per qualcuno ancora sembra un sogno, o un angosciato referente per certe classi lavoratrici rimaste senza guida, proiettate ancora una volta verso le frontiere della povertà. Buenos Aires ha due manifestazioni fisse ogni settimana: quella delle madri di Plaza de Mayo che ancora chiedono tutta la verità su ciò che è accaduto ai loro figli, e quella dei pensionati che protestano per le loro pensioni da fame. Nell'una e nell'altra manifestazione si può ascoltare la dialettica degli oppressi contro gli oppressori, come se assistessimo a due rappresentazioni di Brecht davanti a un pubblico e uno scenario impassibile, tanto attento a tragedie distanti come alle commedie di presidenti restaurati col collagene, concentrati su una cittadinanza a cui si proibisce di ritirare dalle banche i propri risparmi, il necessario per vivere.
Perché stavolta, e una volta in più, il dramma messo in scena è quello dell'impotenza della ragione della maggioranza contro la logica della situazione controllata dall'oligarchia e, in ultima analisi, da "quelli a cavallo", ossia da un esercito che si è impadronito dello stato ogni volta che quell'oligarchia ne aveva perduto le redini. Le misure globalizzanti del Fondo monetario internazionale non hanno fatto altro che accentuare il depauperamento di un paese potenzialmente ricco e veramente povero, ma non di cultura, perché può contare sulla classe media più colta dell'America latina e con gli psicanalisti meglio preparati per studiare la sindrome di autodistruzione, anche se inculcata come una consolazione.