M.V.M.

Creato il
29/3/02.



Identità sottratte

MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN

La Rivista del Manifesto, luglio-agosto 2000.


Come sul terreno delle formazioni sociali sopravvivono e convivono rapporti di produzione differenti, anche se sotto il segno del rapporto di produzione dominante, allo stesso modo coabitano idee, credenze ed opinioni che prendono le mosse dall'accumulazione delle esperienze e dalla loro sedimentazione nel sapere convenzionale. Un sapere che ha per oggetto il proprio "io", la propria consapevolezza di sé, e che costituisce una specie di repertorio di un sapere immediato, stabile, a cui si fa ricorso quando non si trovano risposte nella conoscenza e nel modello di comportamento, che si acquisiscono mediante l'educazione o la informazione, oppure in convergenza con essi.
La identità e la condotta sociale sono conseguenze di un contesto condizionato dalla realtà economica e sociale di riferimento, dalle sovrastrutture che questa base sociale - che ha una funzione egemonica - sublima; ma anche dall'influenza del sapere convenzionale, che agisce come un patrimonio ricevuto in eredità, capace di orientare i comportamenti, ma che non risulta sempre corrispondente con il sapere codificato in norme.
Questo sapere convenzionale si identifica con il sapere tradizionale, accumulato nel tempo; e nelle società più nettamente insediate nella modernità ha provocato una certa scissione nei comportamenti: tra quanto si fa per adeguarsi ai modelli di condotta normalizzata e ciò che si fa a partire dalla coscienza individuale del sapere ereditato.
Non si conoscono a sufficienza le modificazioni intervenute nel sapere convenzionale, come repertorio di sapere della maggioranza: e queste in buona misura corrispondono ad una situazione da ancien régime. La modernità critica aveva proposto la rottura di questo sapere tradizionale o convenzionale, mediante la pulsione verso la trasformazione sociale e la razionalizzazione delle cause e dei fini della vita: sviluppando una critica della religione e intendendo il futuro come progetto razionale di elaborazione di una speranza laica.
E se il provvidenzialismo e il fatalismo connotavano il sapere tradizionale, verso la fine del XX° secolo la sconfitta storica delle ideologie rivoluzionarie e laiciste finisce con il riproporre l'idea della inevitabilità delle cose e la impotenza della ragione a mettere ordine nel caos.
Negli ultimi 25 anni del secolo si affermano ipotesi di revisione radicale della condotta sociale che veniva definita "protezionista" (riferendosi a culture post-feudali, socialiste o ispirate a un modello di democrazia sociale) e prende corpo la legittimazione dei diritti dell'individuo come prevalenti su quelli collettivi. La crisi dell'idea dominante di progresso, la crisi dell'ottimismo borghese come anche dell'ottimismo marxista, la perdita di fiducia nella crescita continua - materiale e spirituale - accentuano gli effetti della disfatta dei paesi di socialismo reale. Ed hanno contribuito a creare una serie di idee-forza, ampiamente ed impunemente usate dai vincitori: secondo questi orientamenti, la sconfitta dei paesi di socialismo reale implicava la sconfitta del socialismo per sempre, e contemporaneamente sanciva che non c'è altro sistema che il sistema capitalista, che il mondo è un mercato unico, in cui si impongono gli individui e i sistemi produttivi più competitivi - anche i sistemi produttivi di idee e progetti per il futuro - e si afferma la competitività rispetto alla sicurezza, persino a costo di produrre emarginazione.
Mentre il blocco sconfitto imboccava un lungo percorso di espiazione e di svelamento dei suoi aspetti più oscuri, il vincitore sembrava improvvisamente liberato da ogni obbligo di ricerca critica ed autocritica, quasi discolpato, poiché la vittoria aveva legittimato sia i caratteri positivi che la parte tenebrosa della sua esperienza.
Questa è la ideologia delle élites nazionali e internazionali, che si sta espandendo urbi et orbe durante il transito verso il terzo millennio. Ed è l'ideologia di una nuova modernità, contrapposta alle aspirazioni di eguaglianza e di solidarietà proprie del discorso emancipatorio delle sinistre, forgiato a partire dalla Rivoluzione francese fino alla crisi delle idee di progresso del decennio tra il 1970 e il 1980.


L'ideologia dei vincitori
James Petras interpreta questa campagna ideologica come un conflitto tra "modernità" e "comunità": "Ci troviamo - afferma - davanti ad un prototipo speciale, riflesso di classi sociali assai concrete, interpreti e promotrici aggressive della modernità e dei valori che questa incarna. In questo senso, modernità significa mobilità, individualismo, secolarismo, potere d'acquisto, accumulazione, adattamento. In contrapposizione a questa filosofia di vita, per i popoli, che cercano di assicurare o preservare un'autentica identità culturale, hanno più importanza i valori di comunità, solidarietà, religiosità, limitazione dei consumi, utilità".
Risulta difficile condividere la fiducia di Petras nei popoli, che secondo lui cercano di garantire o preservare un'autentica identità culturale, perché, se cercassimo di stilare una lista di questi popoli, arriveremmo alla conclusione che, salvo limitatissime eccezioni, questi non hanno scelto di mantenere "l'autentica identità culturale", ma piuttosto conservano una identità culturale come conseguenza di una emarginazione obiettiva, derivante dalla dialettica dei processi di mondializzazione.
Infatti, in misura maggiore o minore, tutte le società conservano gli strumenti identitari tradizionali: famiglia, ambiente sociale, apparati formativi e cultura del lavoro. Ma questi sono modificati in profondità dall'impatto dei tre nuovi strumenti di condizionamento della formazione della coscienza e dei comportamenti: il mercato come nuovo deus ex machina, i media come momento di selezione dei valori e creatori di modelli sociali e l'ideologia della precarietà e della insicurezza come proposta positiva.
Per altro verso, gli apparati mediatici sono in condizione di controllare gli specchi sociali e di falsificare le immagini che vengono offerte, così come di presentare il mercato come panacea e la precarietà come pulsione positiva verso la produttività.


Educazione e potere
Nella formazione della coscienza di sé, vale a dire dell'identità, per primo interviene l'elemento più immediato, la famiglia, il nucleo sociale, il luogo in cui sei nato, per trasmetterti un sapere sulle cose e su te stesso. Sono le prime informazioni che ricevi; e ti collocano in un frammento sociale, in una serie di contesti condizionanti: una casa, un quartiere - davanti alla tua finestra c'è una finestra concreta -, un paese, un paesaggio, dei vicini, una prima immersione inevitabile nella realtà, che conforma la coscienza e le sue aspettative.
La seconda fonte di informazione è il sapere convenzionale trasmesso, che è la risultante più vicina di un'accumulazione di saperi tribali che ti vengono dalla famiglia: il sapere convenzionale generalizzato, cioè quel che sa la gente della tua strada, del tuo ambiente, della tua classe sociale. Questo sapere convenzionale è molto sofisticato, benché molte volte ciò non sia visibile, perché è la risultante di molte memorie, di uno sforzo di comprensione della realtà di generazioni e generazioni, che si trasmette e diventa per questa via il tuo sapere convenzionale immediato. Sono strumenti quasi automatici, che determinano la coscienza di ciò che sei, delle cose di cui hai bisogno e delle relazioni di dipendenza che hai con gli altri.
La terza fonte è esterna. Ed è costituita dall'educazione a cui si è sottomessi attraverso alcuni filtri educativi, che sono controllati, prima di tutto, dal potere. L'educazione come sistema di trasmissione del patrimonio culturale, che è un modo di acquisire una conoscenza, un sapere di ciò che è avvenuto, in funzione della coscienza che devi maturare su quanto sta avvenendo e su quanto avverrà in futuro. L'educazione ti prepara, in modo che il tuo sapere si adatti ad un criterio di interesse generale o di bene comune, che viene dettato dall'establishment in ogni momento storico.
I margini per divincolarsi da questi codici di potere trasmessi dall'educazione sono molto stretti. È molto difficile - a meno che non si abbiano ragioni di antagonismo, che solitamente maturano in circostanze assai specifiche - divincolarsi dal sistema di valori, trasmessi dall'educazione.
Su questi fattori di formazione della coscienza fa irruzione la complessa macchina dell'informazione, che va dall'annuncio quasi artigianale che sta nella vetrina del negozio di fronte a questa macchina universale, che rende possibile una mondovisione onnipresente, capace di trasmettere valori standard e messaggi standard a tutto il mondo. Parlo di questa grande macchina, che produce informazione ed è quasi sempre collegata con quella macchinetta così familiare, il video, che trasforma la nostra casa in un terminale, che trasmette questi messaggi, ma che finisce con il darci l'illusione dell'interattività.
Toffler descrive questa irruzione dell'informazione massificata nella seconda ondata di civilizzazione: "(...) ha moltiplicato il numero dei canali, attraverso i quali l'individuo otteneva la sua immagine della realtà. Il bambino ormai non riceve più le sue immagini dalla natura o dalle persone, ma anche dai giornali, dalle riviste, dalla radio e, successivamente, dalla televisione. Per una regola generale, la chiesa, lo stato, la scuola, la famiglia continuavano a parlare all'unisono, rafforzandosi reciprocamente, mentre gli stessi mezzi di comunicazione si convertivano in un gigantesco altoparlante. E il loro potere fu utilizzato attraverso linee regionali, etniche, tribali e linguistiche, per uniformare le immagini che fluivano nelle correnti spirituali della società".


Cancellare l'identità dei perdenti
In un momento dato, irrompe su tutti noi - sia che siamo del Nord che del Sud - una grande macchina di formazione, che sembra avere un mandato universale, fondamentalmente audiovisivo, che parte dall'idea che il mondo è un mercato unico; e che pertanto il gioco si svolge tra un'unica emittente e un'unica ricevente. Questi codici tendono a produrre conformismo, uniformità, ma quando arrivano al destinatario, si decodificano secondo il metabolismo di ciascuno e possono essere modificati soltanto dal sostrato personale, sociale e culturale di chi riceve questi messaggi. Quanto poi ai diversi settori sociali come soggetti collettivi, anch'essi sono titolari di un proprio specifico sostrato, di un patrimonio, di una storia, di un particolare sapere convenzionale.
Un patrimonio, dal momento che i mezzi di comunicazione e i meccanismi culturali, a cui mi sono riferito, fanno una selezione del sapere del passato; e mantengono quelle conoscenze che ritengono che ci siano necessarie, e le alimentano. E selezionano ciò che, secondo la loro opinione, ci deve interessare. Successivamente noi orientiamo questa coscienza verso un potere personale e un progetto sociale, in funzione di un ruolo, che quasi sempre ci è stato in qualche modo prefissato. Il patrimonio è pertanto un sapere ereditato, che orienta verso un'azione condizionata, mentre il progetto è a sua volta una speranza di realizzazione condizionata da tutto il resto.
I sistemi di formazione della coscienza, da quando esiste la società, si sono impegnati a favorire la conservazione dell'ordine stabilito e a promuovere le condizioni attraverso le quali le identità dell'individuo o dei collettivi potessero sentirsi realizzate in quest'ordine.
Quale che sia il periodo storico che esaminiamo e il grado di universalità di questo sguardo sulla storia, i media hanno teso alla conservazione dell'ordine stabilito; si tratta di media, che sono in se stessi conservatori e che cercano di perpetuare il sapere e di resistere a quanto è sconosciuto.
Su questa tendenza, che va considerata come una costante storica, si sovrappone la sollecitazione culturale post-moderna a ritenere inutile ogni cultura della resistenza, ogni cultura critica, un ruolo della memoria per cercare le ragioni che hanno prodotto questo caos evidente; a ritenere persino colpevole qualsiasi proposito di trasformazione, di rottura segnato dall'utopia.
L'onnipotenza dei vincitori della Terza guerra mondiale permette loro di tentare la strada di una egemonia mediatica, che ormai non si applica più a cercare di vincere la guerra tra Ovest ed Est; ma a decidere dell'altro conflitto, quello tra paesi ricchi e ipersviluppati e paesi poveri e sottosviluppati, e infine - negli stessi paesi ricchi - a intervenire nella contesa tra settori emergenti della popolazione e settori sommersi e progressivamente emarginati da ogni possibilità di promozione e di crescita dentro il sistema.
L'insicurezza e l'incertezza come motore dei rapporti di produzione segnano i desiderata dell'economicismo come filosofia dominante. La decretazione della fine di ogni lotta di classe è il principale strumento del nuovo potere, per completare la vittoria con la distruzione dell'identità dello sconfitto. Questo nuovo potere fomenta il discredito delle coscienze critiche esterne e propone la libertà di coscienza, di giudizio e di azione a partire da un mercato che si presuppone per necessità assolutamente libero.


La difficile ricerca dei soggetti del cambiamento
Si sollecita il soggetto sociale ad assumere la totale libertà di scelta in un mercato dei comportamenti truccato dai vincoli assai rigidi dei canoni prestabiliti e si lascia al soggetto sociale la responsabilità di commettere l'errore di non essere all'altezza del canone più desiderabile.
La conclamata libera scelta di fronte a qualsiasi proposta di consumo - di oggetti come di idee - non rivela però una reale sovranità del consumatore, che non ha quasi alternativa davanti ai modi di vita imposti dai rapporti di produzione e alla pressione che gli apparati educativi e mediatici esercitano perché questi si identifichi con un canone di comportamento che viene ritenuto corretto, senza che il sapere convenzionale si sia posto all'altezza delle nuove sfide conoscitive.
L'opzione per culture popolari di resistenza era possibile solo in funzione dell'esistenza di organizzazioni alternative, politiche e sociali. Che libera scelta ha ora un consumatore di mezzi di comunicazione di massa in un contesto in cui queste organizzazioni sono o disarticolate o screditate o, ancora, come la maggior parte delle Ong, fanno parte dell'apparato caritativo del sistema?
Il mondo delle macchine tende non a rappresentarci, ma ad esprimersi al nostro posto. L'autocompiacimento dello sviluppo tecnologico dei media ha sradicato qualsiasi passione critica. Perché discutere la funzione sociale, politica dei media? Come poi? E in nome di chi? Una quindicina di anni fa c'era ancora se non un'aspettativa almeno un'ambizione di promuovere un cambiamento: una secca alternativa tra il mantenere i rapporti di disuguaglianza e di dominio esistenti, o metterli radicalmente in discussione. C'erano in campo due modi di intendere la storia, che andavano ben più in là di una grossolana riduzione alla politica bipolare dei blocchi: da un lato il fatalismo determinista imposto dai portavoce del capitalismo, dall'altro la teoria critica, che promuoveva un punto di vista difficile da materializzare, da trasferire nell'esperienza, ma capace di creare movimenti di contrasto e di dissuasione di fronte alla prepotenza della coscienza capitalista.
Non è più questa la situazione attuale. Ma non vale forse la pena di cambiarla? Ora, quando si pone il problema di cambiare una situazione, il problema preliminare è l'identificazione di chi ha bisogno di cambiarla, anche come passo essenziale per acquisire una consapevolezza diffusa del fatto che c'è bisogno di cambiarla.
Non vorrei far agitare nessuno citando Marx, ma questo filosofo scrisse alcune cose che si possono ancora citare; e una di queste è la "tesi XI" su Feuerbach, in cui sostiene: finora i filosofi hanno pensato il mondo, ora si tratta di cambiarlo. Cambiarlo in funzione di qualcuno che voglia cambiarlo, di qualcuno che sia beneficiato dal cambiamento e sia disposto a divenire un soggetto attivo in vista di questo scopo.
Ciò che è al centro delle nostre attenzioni, della nostra ricerca, è un soggetto su scala regionale o globale - non fa differenza, una volta assunta la consapevolezza che siamo in un villaggio globale - di cui dovremmo chiederci se è cosciente o no di essere in condizioni di subalternità e di alienazione. Se le élites emergenti gli hanno sradicato la coscienza del fatto che il cambiamento è necessario, il cerchio si è chiuso, e il crimine è stato perfetto; e pertanto il soggetto del cambiamento non si mobiliterà mai perché forse non ha alcuna coscienza di ciò che è.
Per tenerlo a freno gli vengono, infatti, proposte due panacee, che lo sollecitano a una piena integrazione. Una è la sublimazione del valore insieme astratto e inappellabile della globalizzazione, come nuovo grande pretesto universale, che riduce al silenzio ogni tentativo di opporvisi, elimina il ruolo di protezione o di mediazione dei poteri intermedi e accentua la sensazione di assenza di ogni difesa. L'altra consiste nel fatto che il modello di ciò che è "corretto" coincide con il profilo di quei comportamenti, che ottengono la sanzione positiva della conquista della audience più alta, e pertanto sono accettati dalla maggioranza degli utenti; per cui bisogna evitare di segnalare differenze, che possano provocare rotture o semplici rumori di fondo, che interrompano i canali di comunicazione dominanti.


La disuguaglianza come destino
Il concetto stesso di correttezza implica una paralisi della conoscenza e della dialettica, sollecita l'eliminazione del conflitto tra vecchio e nuovo, bene e male e lascia sul campo, come unico modello di interpretazione del reale, la categoria dell'inevitabile. Ora, nella misura in cui il valore dell'inevitabile si afferma come filtro della condotta individuale e sociale, la Storia si cristallizza, come se venisse bloccata e irrigidita in un fotogramma.
La storia è restata senza colpevoli e i colpevoli competono per ottenerne il rispetto. Sono scomparse le ragioni storiche che spiegavano la disuguaglianza, facendo emergere un giudizio negativo su chi la produceva, e si è sistematicamente sostituita la ricerca delle cause con una motivazione sempre uguale, che rinvia ad un elemento fatale. Per cui chi dentro questo fotogramma rigido e immutabile, che dovrebbe rappresentare il mondo attuale, si trova in una posizione infima, marginale, deve questa sua situazione al fatto di essere nato perdente, o di aver avuto la disgrazia di nascere in Somalia, o in un quartiere periferico, e non - ad esempio - in un paese chiamato Germania occidentale, o magari proprio a Wall Street. È questa la coscienza che si trasmette per fissare la legittimità delle disuguaglianze e dei rapporti di dipendenza.
Qualcosa sicuramente manca all'emarginato se non è riuscito a diventare un emergente; e forse il massimo a cui possiamo aspirare, per migliorare questa situazione, è che anche sul terreno della comunicazione si possa arrivare a pensare di praticare una qualche beneficenza. Vale a dire che ciò che avanza, il di più, nelle tecnologie di comunicazione al Nord, lo si può, ogni tanto, dare al Sud: gli si possono, infatti, regalare quote di cereali in eccesso, una parte del deserto e le macchine obsolete, che lo avvicineranno alla rete se potrà pagare la bolletta telefonica.
Ma, evidentemente, il Sud non verrà mai messo nella condizione di discutere dei rapporti di dipendenza rispetto al Grande fratello mediatico, al Grande inquisitore del potere globale, né mai potrà riuscire ad essere come il Grande consumatore.
Di fronte alla tentazione di un nuovo pessimismo millenarista, accentuato dalla informazione accumulata sulle tremende crudeltà e sui disastri di lesa umanità accumulati nel secolo che finisce, nasce la necessità di confidare in un mezzo di trasmissione e di comunicazione che possa imporsi al sistema vincente: e mi riferisco alla realtà.
La realtà ha le sue regole e le insegna; e si può certamente mettere in ombra l'evidenza attraverso la repressione brutale o sofisticati esercizi di ipnosi, di fascinazione mediatica collettiva sempre più massiccia; ma arriva un momento in cui le crepe e gli squarci che si aprono nella realtà travolgono le architetture più sofisticate.
L'alleanza spietata dei vincenti può arrivare ad aggregare nelle società europee il 60% della popolazione, ma in altre realtà pesa molto meno. E lo spettro della sua influenza va riducendo la sua ampiezza man mano che si scende a Sud, in senso reale o metaforico. Questa alleanza dei vincenti per tentare di soffocare l'identità del sommerso su scala planetaria sembra prepotente ed incontestabile, proprio in quanto le sue vittime stanno perdendo la coscienza di ciò che sono. Per questo bisognerebbe preliminarmente aiutare l'emarginato a scoprire che è in questa condizione, perché il crimine perfetto di questa manipolazione comunicativa nei rapporti di disuguaglianza e di dipendenza consiste nel riuscire ad ottenere che l'emarginato non sappia di esserlo e semmai - se proprio lo sa - si senta colpevole della sua condizione.
Togliere l'identità all'avversario potenziale equivale a sconfiggerlo.
L'ultima conseguenza logica della filosofia liberale sui media dovrebbe essere quella di rendere possibile ad ogni individuo di accedere ad uno studio televisivo o radiofonico o alle prime pagine di un giornale; ma in realtà la logica liberale ha portato alla concentrazione, alla centralizzazione del potere di emittenza e alla relativa omologazione dei messaggi, in nome di ciò che domanda la audience o di ciò che è formalmente corretto sul piano informativo.


La caverna di Platone e il problema della libertà dei moderni
Bisognerebbe fare ricorso alla parabola platonica della caverna per spiegare la situazione dell'individuo privato di identità, che sopravvive nella società globalizzata. Occorrerebbe farvi ricorso, invertendone il messaggio e prendendo le parti, senza riserve, dell'abitante della caverna: questi prigionieri per tutto il corso della loro vita, che credono di vedere, e arrivano persino a descrivere la realtà a partire dalle ombre che percepiscono dalla loro prigione. Se qualcuno di questi prigionieri si liberasse e fosse capace di superare il senso di accecamento che produrrebbe in lui una luce, che a prima vista gli sembrerebbe abbagliante, una realtà abbagliante, riuscirebbe poi finalmente a contemplare il sole, senza filtri deformanti, e potrebbe tornare nella caverna a trasmettere questa scoperta ai suoi compagni, che vivono nell'ignoranza della realtà.
Una delle interpretazioni del mito platonico presuppone da parte del filosofo la volontà di proporre l'educazione come uno strumento di emancipazione, benché -muovendo dal classismo di una società schiavista- Platone presuppone che questa possibilità di guardare il sole senza filtri può averla solo il re filosofo.
Anche l'individuo contemporaneo rimane nel seno di questa caverna; e per lui il mondo esterno è fatto di ombre. In ciò non c'è nulla di magico; o, se si può parlare di magia, bisogna dare a questa parola un senso che sia equidistante tra i giochi circensi di abilità e la truffa.
L'individuo non ha scelto la sua situazione umiliante di abitante della caverna; e la sua percezione mistificata della realtà esterna è programmata e gestita da tutti coloro che sono interessati a condizionare la realtà, imprigionandola in un involucro storico inalterabile. Lo sforzo del potere, infatti, consiste precisamente nel fondare la sua forza sulla concentrazione e nel produrre la debolezza dell'avversario - si parla di noi -, determinando un suo progressivo sprofondamento nel seno di questa caverna.
Sono ogni volta di meno le persone, i soggetti e le istituzioni che telecomandano queste immagini: e di ciò percepiamo come un'eco noi, quell'immensa maggioranza sottomessa alla caverna e ai suoi labirinti. Per il momento, possiamo comunicarlo dalla nostra tana attraverso internet o mediante alcuni incontri, meritevolmente marginali, come quello a cui stiamo partecipando.

Questo saggio deriva dalla relazione su Identidad y madriguera, tenuta da Manuel Vázquez Montalbán a un Convegno sulla cultura del terzo millennio, tenuto a Valencia lo scorso maggio, su iniziativa della Fundación Valencia Tercer milenio e della Adc Nouveau millénaire.