M.V.M.

Creato il
19/11/97.


Il dittatore si racconta

NICOLA TRANFAGLIA*

L'INDICE dei libri del mese, gennaio 1994.


È particolarmeote difficile per la narrativa contemporanea riuscire a coniugare l'immagine poetica e letteraria e il senso del dramma dei nostri tempi, di questo Novecento incominciato al culmine della cosiddetta belle époque europea, proseguito con il ferro e il fuoco dei fascismi e della dittatura staliniana e che ora sta finendo in mezzo a guerre sanguinose e a processi allarmanti di disgregazione nazionale.
Né mi pare essere testimonianza evidente la narrativa del nostro paese che, scomparsi Italo Calvino e Leonardo Sciascia, sembra, a mio avviso, trovare quasi soltanto in Sebastiano Vassalli (penso anche al suo ultimo Il cigno, che pure a tanti —e in parte anche a me— non è piaciuto) romanzi capaci di farci sentire l'atmosfera e il senso della storia contemporanea.
Certo i modi che un popolo ha di elaborare i propri lutti non prendono necessariamente la forma del romanzo né quella della storia.
I modi sono tanti e differenti e negli ultimi decenni, per far solo un esempio, il cinema a volte è riuscito ad andare più avanti della narrativa e della storia e a riproporci in maniera originale un passato prossimo che stava per scomparire: penso a Heimat I e II del regista tedesco Edgar Reitz che forse meglio di scrittori e storici ha fatto rivivere a tanti spettatori in Germania e fuori due giovinezze e due stagioni fondamentali per il popolo tedesco, quella dell'ascesa nazional-socialista e quella del "miracolo economico" e della progressiva americanizzazione degli anni sessanta e settanta.
Nella Spagna, uscita dopo quasi quarant'anni da una dittatura di tipo fascista seppure anomalo come quella di Francisco Franco, un ruolo centrale nella collettiva elaborazione del lutto ha assunto da molti anni lo scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán che gli italiani conoscono soprattutto attraverso i gialli che hanno come protagonista il detective Pepe Carvalho (da Assassinio al Comitato Centrale pubblicato anni fa con successo da Sellerio alla Solitudine del manager uscito di recente da Feltrinelli per citare solo due titoli) ma che è di sicuro per la sua intensa attività di poeta, di commentatore del quotidiano "El País" e per essere l'autore di Galíndez, un romanzo che ha vinto il Premio Europeo de Literatura e il Premio Nacional de Literatura, uno degli scrittori più amati e seguiti nel suo paese e di anno in anno in tutta Europa. Vázquez Montalbán, che ha vissutto la sulla giovinezza durante la dittatura, lottando contro di essa nel partito comunista clandestino e finendo per un anno nelle carceri franchiste, ha sempre avuto assai forte nei suoi romanzi questo senso del presente e del passato insieme, ha seguito con grande capacità di penetrazione le trasformazioni sociali e culturali della società spagnola dopo il franchismo e ha più volte sottolineato nei suoi "gialli", come negli altri romanzi e racconti (penso a un altro titolo importante pubblicato da Sellerio, Il pianista), il peso della dittatura franchista e della sua eredità per la democrazia che pacificamente vi è subentrata alla morte del Caudillo, mettendo in luce, attraverso i personaggi creati e i loro drammi personali, le contraddizioni tra la vecchia e la nuova Spagna, i guasti dell'antico autoritarismo, le inerzie delle tradizionali istituzioni del paese, a cominciare dalla Chiesa e dall'apparato finanziario.
C'era da aspettarsi, perciò, che Montalbán affrontasse prima o poi di petto il personaggio chiave nella storia spagnola del Novecento, quello che vi ha impresso un'impronta fortemente negativa ma senza dubbio centrale, cioè il generale Francisco Franco Bahamonde, nato alla fine del secolo scorso in un paesino della Galizia, El Ferrol, e fortunosamente asceso, dopo una rapidissima carriera militare, a comandante supremo dei militari che si ribellarono alla Repubblica spagnola nel luglio 1936 e, dopo tre anni di guerra civile, si impadronirono del potere grazie anche all'aiuto delle potenze fasciste, la Germania di Hitler e l'Italia di Mussolini. Lo scrittore catalano lo ha fatto immaginanndo che lo stesso Franco decidesse di ripercorrere la sua vita, ogni tanto interrotto o postillato da un personaggio minore, un letterato comunista che ha pagato pesanti prezzi per la lunga dittatura e, per guadagnarsi la vita, decide appunto di registrare le vicende del Caudillo per una pubblicazione a grande tiratura.
Lo struumento narrativo, quello di una finta autobiografia, presentava più di un rischio per lo scrittore: quello di non riuscire a cogliere i tratti davvero essenziali della personalità del Caudillo o, per riuscirvi, innalzargli alla fine una sorta di monumento. E ancora quello, essenzialmente letterario, di scrivere un saggio storico piuttosto che un romanzo.
Montalbán ha evitato questi e altri rischi entrando compiutamente nella psicologia di Franco e facendolo parlare per seicento pagine come se il dittatore, alla fine della sua vita, facesse un ampio bilancio della sua opera, delle sue battaglie militari e politiche, dei suoi progetti per il futuro della Spagna.
Il falso "autoritratto" che emerge a poco a poco dalla narrazione di Montalbán è assai somigliante nei tratti fondamentali (e gli storici spagnoli che lo hanno criticato mi sembra abbiano guardato piuttosto ai dettagli che alla somiglianza del ritratto complessivo). Franco fu, a differenza di Hitler e Mussolini, un tipico rappresentante del ceto militare tradizionale, legato da una parte alla Chiesa e dall'altra all'ideologia e agli interessi dei grandi proprietari terrieri. Aveva qualità indubbie di comando e di tattica militare, ma soprattutto riuscì a diventare nel tempo il rappresentante di quelle forze sociali ed economiche che in Spagna non volevano la democrazia e per questo preferivano una versione spagnola di fascismo che ebbe bisogno di una sanguinosa guerra civile per conquistare il potere. Tanto il Caudillo agiva come rappresentante di queste forze, che quando, negli anni sessanta, il fascismo non era piú presentabile e il partner americano, d'accordo con la Chiesa cattolica, chiedeva limitate riforme per la modernizzazione, Franco non vi si oppose e, con l'aiuto del fido Carrero Blanco, si accomodó a un regime piú moderno e con tendenze tecnocratiche, ma sempre duramente repressivo nei confronti del movimento operaio come dell'intelligencija democratica di ogni tendenza.
Montalbán ci fa scorrere con la sua scrittura, che anche in questo libro è piena di lampi e di sottile ironia, tutta l'epopea franchista con i suoi valori tradizionali, gonfi soltanto di retorica, con la sua ferocia, verso i comunisti prima di tutto ma in generale verso tutti quelli che non accettavano la dittatura, i giochi con gli alleati fascisti e poi con gli Stati Uniti, l'uso sapiente della prospettiva monarchica. Franco ne esce male, come un uomo che non ha umanità né sentimenti autentici, che vive nella vuota retorica dei suoi slogan ed è dominato soltanto da un'ambizione smodata. Ma anche tutti i personaggi del regime (se si esclude il fratello di Franco, Ramón, personaggio deviante della famiglia e per questo piú umano) compaiono nel romanzo con i loro gravi difetti, la loro mancanza di coraggio, il conformismo di fondo che lo scrittore sembra attribuire a tanti spagnoli.
Una lezione di storia, insomma, con le armi e le caratteristiche del romanzo. Montalbán è preoccupato, come si legge nei dialoghi delle ultime pagine, della grande perdita di memoria del nostro tempo, di chi vuol far dimenticare che cosa è realmente accaduto.
Lo siamo anche noi e ci chiediamo perchè in Italia nessuno abbia ancora scritto un Io, Mussolini con le intenzioni e la scrittura di Montalbán. Di questi tempi non sarebbe —crediamo— una cattiva idea. Ma forse nel nostro paese non ci sono ancora scrittori versatili e ispirati dalla storia come il creatore di Pepe Carvalho.


*Nicola Tranfaglia, napoletano, è professore ordinario di Storia contemporanea nella facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino dal 1976.