M.V.M.

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21/4/98.


FIESTA PER CARVALHO

STEFANO MALATESTA

La Repubblica, 16 / 9 / 1997.


Quest'anno sono 25 anni dalla nascita di Pepe Carvalho, il detective scettico, ex agente di un'associazione che assomiglia alla «Spectre», ex comunista, gastronomo e cliente del ristorante Leopoldo di Barcellona, che ha fatto del suo creatore Manolo Vázquez Montalbán lo scrittore spagnolo piú conosciuto nel mondo dopo Cervantes e Lorca. La settimana prossima Manolo riceverà in Sicilia il premio Vittorini e a ottobre uscirà l'ultimo romanzo della serie, «Carvalho a Buenos Aires».

Era un po' di tempo che non sentivo Montalbán e prima di parlare con lui sono andato in archivio a prendere il dossier che lo riguarda. Ci saranno state almeno cinquanta interviste solo in Italia dove Manolo discute di quasi tutto, da Ronaldo a Franco, passando per Góngora. Il migliore scrittore siciliano dopo Sciascia (se è possibile fare entrare gli scrittori siciliani in una categoria), Andrea Camilleri, ha chiamato Montalbano il poliziotto, protagonista dei suoi magnifici gialli, in onore dello spagnolo. E mi pare che anche Massimo D'Alema vada citando l'autore di Pepe, che vorrebbe vedere in trasferta in Spagna l'esperienza dell'Ulivo. Quando lo dico a Manolo si mette a ridere: «Sono stato tradotto in 26 lingue, compreso il giapponese, ma non ancora in cinese. E quindi quasi metà della popolazione mondiale non mi legge».

Montalbán, come spiega questo successo così internazionale e così vasto?
«All'inizio credevo che il successo in Spagna dipendesse dal fatto che parlavo della transizione dal regime di Franco ad una moderna democrazia. Questo strano periodo, iniziato molti anni prima della morte del Caudillo, direi paradossalmente nel 1957 con l'Opus Dei e il Piano di Stabilizzazione e poi con lo Sviluppo Economico, quando la censura poteva proibire un libro di poesie perchè veniva adoperata la parola «ascella», considerata troppo ordianaria e volgare. Ma si permetteva allo stesso tempo che la borghesia di Barcellona organizzasse convogli per andare a vedere a Perpignan, oltre frontiera, il culo di Marlon Brando nell'Ultimo tango a Parigi.
«Quando cominciarono a leggere i miei libri altrove in Europa, pensai che c'era qualche altra cosa. E quest'altra cosa doveva essere come una capacità di Carvalho di funzionare da termometro, di registrare tutte le variazioni dei passaggi da un'epoca di grandi speranze o se vuole di utopie, comuni a molti paesi e culminate con il Maggio francese —l'immaginazione al potere, il sesso libero e il resto— ad un periodo di disincanto e di delusione, e di sesso con il preservativo. Alla grande operazione della postmodernità in senso lato, che ha convinto dell'inutilità della storia e dell'importanza assoluta e predominante del presente. Ossia i fatti concreti e una certa abilità nel manovrarli. Ecco, mi sembra che Carvalho sia stato un testimone e i lettori si sono riconosciuti in quello che lui registrava o viveva».

In questo senso Carvalho è l'opposto di Maigret, che non cambia quasi mai dall'inizio alla fine delle sue storie: lui, il suo feltro, il suo pardessus, la sua pipa, le sue birre. Sempre immerso in quella «certa» periferia nebbiosa.
«Esattamente. Maigret non si evolve neppure fisicamente, ha sempre la stessa età, in una Francia immutata e immutabile. Mentre Carvalho cambia e invecchia...».

Lo credo, a forza di paellas e di quell'ottimo, ma pesante, mi scusi, vino rosso spagnolo. Anche se Leopoldo è un ottimo ristorante. Ricordo che lei aveva immaginato Carvalho un po' rassomigliante a Trintignant, l'attore francese. Adesso a chi sarebbe piú simile?
«Ad Harvey Keitel, il protagonista di Lezioni di Piano e di Smoke. È una identificazione piú psicologica che fisica, basata sull'ambiguità, sulla duplicità, sulla capacità di poter mostrare piú facce».

Com'e nato nel 1972 Pepe Carvalho?
«All' epoca ero molto impegnato letterariamente e politicamente. Scrivevo poesie, saggi. In Spagna esisteva una curiosa situazione: ai giovani si chiedeva di scrivere l'Ulisse. Se non eri raffinato, ermetico, un acrobata o giocoliere di parole, però di genere lento, estenuante, non contavi. Nello stesso tempo la letteratura spagnola sofftriva di un compleso d'inferiorità verso quella sudamericana, autori come Vargas Llosa o García Márquez erano letti in tutto il mondo.
«Non se ne poteva piú di quella scrittura di avanguardia. Mi ricordo che Rafael Alberti diceva che i personaggi di questi romanzi impiegavano trenta pagine per salire le scale. Una sera, dopo varie bottiglie in compagnia del mio amico José Batlló, decisi di scrivere una semplice —poi non tanto semplice— storia di guardie e ladri, che ho intitolato L'uomo che uccise Kennedy. Doveva essere una vicenda ricca di fatti, un po' all'americana. Ma allora anche per pubblicare una storia poliziesca s'incontravano delle difficoltà e la stessa casa editrice progressista alla quale mi ero rivolto, mi consiglió di andare da una di destra. Uno dei maggiori problemi era l'impossibilità di raccontare in qualsiasi modo la polizia spagnola. Cosí all'inizio Carvalho lavorava sempre all'estero: Stati Uniti, Olanda».

E la critica che disse?
«Disse che stavo rovinando una promettente carriera, che avevo fatto un'operazione commerciale. Mentre avevo solo tentato di divertirmi e di scrollarmi di dosso il peso di una letteratura entrata in un vicolo cieco. E se ora ci sono cinque o sei scrittori validi in Spagna, bisogna risalire a quell'insofferenza, mia e di altri».
«Poi nel 1979 vinsi il Planeta, un premio importante e la critica cominció a cambiare atteggiamento. Anche perchè un critico francese, Michel Lebrun, convinse un editore a tradurre i romanzi che vinsero un altro premio in Francia, e questo in Spagna contava. In quegli anni avevo letto Leonardo Sciascia e mi ero convinto di un fatto: ci sono dei romanzi diciamo così polizieschi, come quelli di Graham Greene o di Le Carré, che attraverso una trama di delitti raccontano la storia. Non si puó capire la guerra fredda e quello che ha significato in Europa se non si leggono i romanzi di Le Carrè».

E' una storia che lei ha condito con il sesso e la gastronomia. «Il sesso c'è sempre, ovunque. Quanto alla gastronomia, questa ipocrisia che ammanta di cultura un'operazione sostanzialmente omicida, di animali che vengono fritti o arrostiti, era tabù nella sinistra. Veniva ritenuta una debolezza borghese e come tale disprezzata. Io ho voluto fare una piccola provocazione. Poi è successo che all' estrema sinistra, anche in Italia mi pare, sono diventati tutti dei gourmet, dei palati scelti».

Mi ricordo che Assassinio al Comitato Centrale non piacque molto a Carrillo e non per ragioni gastronomiche.
«Dal suo punto di vista aveva ragione : facevo ammazzare il segretario generale del partito comunista. Naturalmente l'omicidio era anche la metafora dell'uccisione del padre, della ingombrante figura cui ci si doveva liberare. Al momento della transizione, in Spagna il partito comunista era composto da giovani non coinvolti con la guerra civile e neanche con lo stalinismo. Loro avevano bisogno non di dimenticare, ma di ricordare. Invece il passaggio era gestito dai vecchi che si trovavano nella situazione opposta. Non volevano mollare e neanche morire, biologicamente o metaforicamente».